La vecchiaia non é una sfortuna

15.12.2025

di Nicola Accordino

Immagino sempre la mia vita come una lunga linea tirata a mano libera: non perfetta, non simmetrica, con curve e zig-zag, ma comunque una linea che avanza. Adesso, che sono a metà del percorso, quella linea mi mostra qualcosa che nella giovinezza si finge di ignorare: il tempo fa sul serio. Segna, trasforma e, in certi casi, porta via.

È una consapevolezza maturata lentamente, ma da qualche mese ha preso un'altra forma, quasi fisica. Da quando ho iniziato il mio percorso di formazione per lavorare in una casa di riposo, questa idea del tempo si è seduta davanti a me come un vecchio amico burbero, uno che conosce le risposte ma vuole prima vedere se hai capito le domande.

E io, a quarantacinque anni, ho capito che certe domande non posso più rimandarle.

Tutto è iniziato molto prima, anche se non lo sapevo ancora. Quella frase l'ho sentita per anni, infilata in una pubblicità ripetitiva:"Prevenire è meglio che curare." Era riferita alle carie, allo spazzolino, alla passata quotidiana sui denti. Però quel motto si è messo da qualche parte in testa e ogni tanto riemergeva, come un messaggio non letto.

Da adulto ha iniziato a fare più rumore. Quando sei giovane, pensi che tutto sia aggiustabile: un dolore, una dipendenza, una cattiva abitudine. Poi arrivano i primi sintomi di realtà: amici che si ammalano, genitori che invecchiano, persone che avevi sempre visto forti che iniziano a perdere colpi. È allora che quella frase smette di essere uno slogan per diventare una sorta di bussola morale.

Io non voglio arrivare a sessant'anni già spezzato. Non voglio essere il tipo che non riesce più a camminare, che non riesce più a salire una scala, che ha passato quarant'anni a farsi del male e gli ultimi venti a pagare il conto. Non lo voglio per niente.

E non è paura dell'età. L'età è un fatto. È la sensazione di spreco che mi terrorizza.

Ognuno ha il suo demone personale. Il mio è questo: ammalarmi di una demenza. Perdere pezzi. Perdere me stesso. Non ricordare nomi, storie, dettagli, persone che amo. Diventare un corpo che ha bisogno di tutto, sempre. Già mi conosco: per me sarebbe devastante. Il pensiero che la mia autonomia possa sgretolarsi lentamente, centimetro dopo centimetro… ecco, quello sì che mi fa tremare le mani.

Per questo sto andando a lavorare proprio lì, dove quella paura vive ogni giorno. Non è masochismo. È guardare il mio demone negli occhi. Per togliergli potere. Per capire cosa succede quando la fragilità si manifesta, quando la memoria si fa più piccola, quando i mondi interni delle persone si restringono.

E allo stesso tempo, accendere una seconda consapevolezza: quella sulla responsabilità verso il mio "io" futuro.

Alcuni dicono: "Tanto chissà se ci arrivo a quell'età." È una giustificazione comoda, ma pericolosa. Non sappiamo quanto vivremo, certo, e la vita può sorprenderci in ogni momento. Ma se ci arrivi davvero, le tue scelte contano eccome. La responsabilità non è sul destino, è sul tuo corpo, sulla tua mente, sulla tua autonomia. Posso morire domani per cause imprevedibili, è vero. Ma fino a quando ho tempo, posso decidere come arrivarci. Posso coltivare uno stile di vita sano, equilibrato, proteggere la mia mente, il mio corpo, la mia libertà. E quel che posso controllare va controllato, oggi, non domani.

Questa è la frase che ripeto più spesso a me stesso. Non perché me la voglia scolpire a forza in testa, ma perché è vera. La salute si difende quando è ancora lì, solida, discreta, invisibile. Quando non la senti. Quando il corpo funziona senza ricordartelo.

Dopo, quando qualcosa si rompe, quando qualcosa manca, quando il sistema inizia a scricchiolare… è molto più difficile aggiustare i pezzi. Non impossibile, certo. Ma molto più faticoso. E in alcuni casi non basta tutto l'impegno per tornare come prima.

Non significa vivere come un monaco zen. Non sto cercando estremismi. La parola chiave è consapevolezza. Un bicchiere di vino non è un veleno. Tre bottiglie al giorno sì. Un giorno senza muoversi capita, dieci giorni diventano danno. Dormire poco una notte capita, dormire male un mese cambia le probabilità. Prevenire significa sapere cosa fai e perché. Non far finta che le conseguenze non esistano.

C'è un'altra cosa che mi porto dietro: la cosiddetta "sindrome del sopravvissuto". È quell'illusione che a noi non succederà, che le tragedie toccano sempre qualcun altro. Funziona finché non succede davvero. Nella mia vita ho visto amici, parenti, compagni di scuola morire giovani. Non erano irresponsabili, ma pensavano di essere eccezioni. La natura non guarda in faccia a nessuno. Non possiamo controllare tutto, ma possiamo controllare qualcosa. E quel qualcosa non è negoziabile: è un dovere morale, soprattutto verso chi verrà dopo di noi. Ammalarsi giovani significa costringere chi ti ama a vivere metà della loro vita a sorreggerti. Dire "ci penseranno loro" è egoismo travestito da rassegnazione. La prevenzione è un regalo a chi ci ama, non solo a noi stessi.

Se hai un 1% di rischio genetico per una malattia neurodegenerativa, quell'1% rimane tale se vivi bene. Se dormi, ti muovi, non ti strozzi di alcol, mantieni mente e corpo attivi. Ma lo stesso 1% diventa 30, 40, 70% se ignori sonno, alimentazione, stress, dipendenze. I numeri non mentono. Esistono eccezioni? Certo, ma non sono la regola. Fidarsi delle eccezioni è un lusso che la vita non concede.

Lavorare con gli anziani mi insegna che il corpo non tradisce: fa quello che può con ciò che ha. Chi ha vissuto attivo, curato relazioni, mangiato in modo semplice, si muove ogni giorno: a ottant'anni ha mente lucida, occhi vigili. Chi ha trascurato, accumulato e ignorato: fatica, dolori, limiti. Non è morale. È realtà biologica. Io non voglio arrivare vecchio come un oggetto rotto da riparare. Voglio arrivarci intero.

Alcuni dicono: "Tanto se deve succedere, succede." Certo. Nessuno controlla tutto. Ma possiamo controllare ciò che dipende da noi. Voglio arrivare a 95 anni integro, scegliere, ridere, leggere, viaggiare. Non voglio cinquanta anni pieni e quaranta di sopravvivenza passiva. La vecchiaia non è catastrofe: è capitolo nuovo. La differenza la fai tu. E la fai oggi.

Molti pensano che la vecchiaia sia triste, inevitabile, una condanna. Non è così. La vecchiaia è la conseguenza di come abbiamo vissuto la giovinezza. Se siamo stati attivi, curiosi, prosociali, se abbiamo usato bene le nostre energie e schivato le trappole della vita, possiamo avere una vecchiaia serena, di buona qualità. Se invece viviamo come se tutto fosse inevitabile, come se la malattia fosse un destino, allora ci consegniamo al caso. Non serve essere filosofi rinascimentali che cercano gioia a ogni costo, ma nemmeno consumare tutta la nostra energia subito. È come avere un fuoco da mantenere acceso per tutta la notte: se butti tutta la legna subito, avrai una vampata intensa, ma presto resteranno solo ceneri inutili. La vecchiaia felice non è fortuna, è gestione sapiente delle proprie risorse, giorno dopo giorno.

Quello che sto imparando entrando in questo nuovo lavoro è che la vecchiaia non va evitata: va vissuta con autonomia e lucidità. Proteggere oggi ciò che un giorno sarà fragile è un atto di amore verso se stessi e chi ci ama. Prevenzione non è rinuncia, è libertà. È potere. È vivere fino in fondo. È l'unica promessa sensata che possiamo farci davvero.


La tua iscrizione non può essere convalidata.
Controlla la tua mail per confermare l'iscrizione

Resta aggiornatə sui progetti e le novità di Sogni di Latta

Utilizziamo Brevo come piattaforma di marketing. Inviando questo modulo, accetti che i dati personali da te forniti vengano trasferiti a Brevo per il trattamento in conformità all'Informativa sulla privacy di Brevo.

Immagino sempre la mia vita come una lunga linea tirata a mano libera: non perfetta, non simmetrica, con curve e zig-zag, ma comunque una linea che avanza. Adesso, che sono a metà del percorso, quella linea mi mostra qualcosa che nella giovinezza si finge di ignorare: il tempo fa sul serio. Segna, trasforma e, in certi casi, porta via.

É una sera qualsiasi, una di quelle in cui dici a te stesso "un episodio e poi dormo", e invece ti risvegli quattro ore dopo, con la bocca impastata, la schiena sudata e Netflix che ti chiede con tono passivo-aggressivo: "Sei ancora vivo?". È il rito moderno del binge watching, un'abitudine che abbiamo trasformato in stile di vita, quasi una...