Caro generale,
non la nomino — non per rispetto, ma per pietà. Lei già gode di una visibilità eccessiva, sproporzionata rispetto a ciò che ha da dire. Ma chi frequenta i social, i talk show, le poltrone buone, i salotti in divisa e le vetrine di editoria da cassetta, ha già capito perfettamente di chi sto parlando. Uno che si è sentito in dovere di scrivere in un libro che, da bambino, volle toccare la mano di un ragazzo nero per capire se fosse come la sua. Un gesto "innocente", dice lei. Sì, come un rigurgito d'antropologia coloniale.
Ma il punto non è solo lei. Lei è un simbolo. Un simbolo di tutto quel mondo che si sta ricompattando sotto lo stendardo polveroso del maschilismo d'ordinanza. Quello che al gay pride storce il naso. Quello che ogni volta che si parla di fluidità, di libertà, di corpi che si mischiano e si reinventano, si mette sull'attenti. Non per disciplina: per paura. La paura che il mondo cambi senza chiedere il permesso a chi è abituato a comandare.
Ora, torniamo alla frase. La sua perla di saggezza: "Se ci sarà una guerra, chi ci manderanno? Quelli del gay pride?"
Domanda interessante, generale. Le rispondo con calma, che lei ha tempo. Sì, ci manderanno anche quelli del Pride. E sa perché? Perché chi partecipa al Pride ha già affrontato guerre molto più dure: quella per uscire di casa senza vergognarsi, quella per amare senza doversi nascondere, quella per ballare senza farsi picchiare, quella per esistere senza chiedere scusa.
Lei pensa che basti una mimetica per essere uomo? Che la virilità si misuri in litri di testosterone e righe dritte? Che il coraggio stia nelle stellette, nei gradi, nei comandi urlati? No, generale. Il coraggio è uscire in strada vestiti di glitter in un paese che ti mena per questo. Il coraggio è baciarsi davanti a chi ti odia. Il coraggio è non rinnegarsi. Lei lo sa cosa significa essere se stessi in un mondo che fa di tutto per farti sentire sbagliato?
No, forse non lo sa. O forse lo sa benissimo, ma ha imparato a non pensarci. Ha imparato a tenersi dentro quelle cose che "non erano da uomini". Una canzone che le piaceva, ma troppo melodica. Un gesto affettuoso, ma troppo dolce. Un modo di camminare, ma troppo morbido. Un colore, una danza, un sogno: ma "non da maschio". E allora via. Cancellato. Accantonato nel magazzino della vergogna, che è sempre pieno nei cuori educati a diventare duri.
E non è solo lei. È pieno di uomini cresciuti così. Uomini a cui hanno insegnato che il pianto è debolezza, la carezza è sospetta, l'empatia è per le donne. Uomini a cui hanno tagliato via pezzi di sé per farli entrare in un'uniforme troppo stretta. Uomini che non sanno più cosa gli piace, ma solo cosa devono piacere. Uomini che non sanno se sono mai stati liberi.
Allora, caro generale, le chiedo una cosa: lei se lo ricorda l'ultima volta che si è sentito davvero libero? Non potente, non temuto, non rispettato. Libero. Quella sensazione sottile, rara, che si prova solo quando non si deve fingere nulla. Se lo ricorda?
Il Pride è questo. Non è una carnevalata. È una festa, sì. Ma come ogni festa che si rispetti nasce da una resistenza. La resistenza contro l'obbligo di essere "come si deve". Contro l'uniforme del genere. Contro l'addestramento all'odio. È una parata di persone che hanno scelto la libertà. E la libertà, caro generale, è contagiosa. È per questo che vi fa paura.
Vi fa paura perché non potete etichettarla. Non la potete mettere in fila, marciare al passo, catalogare, reprimere. L'onda gay — come la chiamava Renato Zero — non si lascia comandare. È flusso. È corpo che cambia. È mente che si sposta. È gente che non si giudica dal colore della pelle, dalla gradazione della voce, dalla rigidità dell'andatura. È gente che si piace così com'è. Che si studia, si accetta, si ama. È l'arcobaleno. E voi siete ancora lì a discutere di che tonalità di grigio debba essere più virile.
Ma attenzione. Questa vostra ideologia tossica — non fa male solo a noi. Fa male a tutti. Fa male agli uomini eterosessuali che devono fingere sempre di essere "maschi alfa", anche quando vorrebbero solo crollare. Fa male alle donne che devono "farsi rispettare" in mezzo a branchi che parlano di loro come fossero proprietà privata. Fa male ai ragazzi che crescono pensando che essere sensibili sia una colpa. Fa male alle ragazze che devono giustificare ogni centimetro della loro libertà. Fa male a chiunque si veda schiacciato sotto il peso dell'uomo modello, quello che non piange, non cede, non sbaglia. Un uomo che non esiste — se non nella vostra propaganda.
E allora sì, generale, se un giorno ci sarà da difendere questa patria — non sarà la sua. Sarà una patria dove si balla anche se non sei un soldato. Dove si può essere forti senza dover minacciare nessuno. Dove le persone si baciano senza paura. Dove ci si può tenere per mano anche se non si è dello stesso sesso, dello stesso colore, dello stesso genere.
Una patria dove l'orgoglio non ha un solo volto, ma mille.
Una patria dove l'arcobaleno ha sostituito il grigio. Una patria in cui la virilità non si misura con la voce grossa, ma con la capacità di ascoltare.
Noi ci saremo. Con i nostri colori, i nostri dubbi, le nostre gioie e le nostre fragilità. Con i nostri corpi che ballano e le nostre parole che costruiscono. Perché ci siamo accettati. E siamo liberi.
E lei? Si è mai sentito davvero libero?