L’imperatore non è pazzo. È uno specchio.

06.07.2025

di Nicola Accordino

Comincia sempre così: urla, poi ride. Minaccia, poi arretra. Tende la mano, poi sputa in faccia.
Donald Trump — lo spauracchio, l'isterico, il pagliaccio armato — è tornato al centro del palcoscenico. E molti, prevedibilmente, si chiedono: ma questo è pazzo?

Lo sostiene perfino un Nobel, James Heckman. E con lui un esercito di editorialisti e commentatori che, appena vedono una contraddizione, la mettono in diagnosi.

Trump è fuori di testa. Putin è paranoico. Netanyahu è schiavo del complesso del Messia. Kim Jong-un? Bambino mai cresciuto. È la psicopatologizzazione sistemica del potere.

Ma qui serve dirlo: questa lettura, così rassicurante e "Netflix-ready", è pericolosamente pigra. Non solo semplifica. Non solo deresponsabilizza. Ma soprattutto — ed è la cosa peggiore — ci esonera dal guardarci allo specchio.

Erich Fromm lo aveva già detto a metà Novecento: ogni dittatore è anche il prodotto delle paure e dei desideri della sua popolazione. Il leader paranoico, sadico o narcisista non è solo una "mente disturbata", è un catalizzatore collettivo. È il distillato delle pulsioni profonde di una civiltà.

Trump non è pazzo. È coerente. Con chi? Con la struttura che lo ha generato. Con i vuoti che riempie. Con il gioco a cui è stato addestrato a vincere.

C'è una cosa che la psicologia ci insegna bene, ed è che la mente non sopporta l'incoerenza troppo a lungo. Se c'è un conflitto interno, o lo risolviamo, o lo rimuoviamo. E se sei un individuo con poco potere, questa dissociazione si chiama "coping". Se sei il presidente degli Stati Uniti, si chiama politica estera.

Trump non mente perché è bugiardo. Mente perché è dissociato, come lo è l'intero sistema americano. Un sistema che da decenni vive al di sopra dei propri mezzi, finanziando guerre con debito, invadendo per pagare interessi, esportando democrazia con i droni.

Brancaccio lo spiega bene: la pax americana era un gioco di prestigio, un trucco tra dollari e bombe. Ma oggi quel trucco non funziona più. Il debito è troppo alto. Gli interessi quasi superano il budget militare. E le guerre — quelle vere, a costo pieno — diventano un lusso.

E allora il potere cosa fa? Si agita. Grida. Minaccia. Poi si corregge. È il comportamento tipico di chi non riesce più a mantenere una narrazione coerente, né verso fuori né verso sé stesso. In psicologia si chiama collapse of the self: crollo dell'identità sotto pressione.

Nel suo Sorvegliare e punire, Michel Foucault ci ha spiegato come il potere moderno non si limiti a comandare. Organizza il visibile. Crea rituali, cornici, scenari. E Trump è il re di questo potere spettacolare. È la sua maschera finale.

Trump si presenta come un buffone armato, ma in realtà incarna un sistema che non può più permettersi la verità. E allora fa teatro. L'unica forma di governo ancora finanziabile è lo spettacolo. Lo aveva intuito anche Elias Canetti: la massa ha bisogno del suo uomo, ma quell'uomo è sempre il primo a sapere che sta fingendo.

Il leader populista, in realtà, non governa il popolo. Lo consola. Gli dice: non sei tu il problema. È colpa dei neri, dei cinesi, dei gay, dei migranti, dei "woke", dei giornalisti, delle élite. In un mondo dove nessuno sa più cosa succede, la colpa è il miglior collante sociale.

Ci piace pensare a Trump come a un'eccezione, un incidente di percorso. Ma è il contrario: Trump è la regola portata all'estremo. È il capitalismo in forma umana. Narrazione disordinata, iperproduzione di senso e immagini, guerra come investimento, debito come motore.

Chi lo sostiene non è ingenuo. È disperato. Cerca una voce che urli al posto suo. Che rompa, che morda, che sia inadeguata. Un leader con cui identificarsi non per stima, ma per simmetria emozionale.

E chi lo critica, spesso, lo fa da un altro luogo narcisista: la superiorità morale. Ma la verità è che Trump è una proiezione collettiva. È il nostro Frankenstein. È ciò che resta di un immaginario occidentale dopo decenni di deregolamentazione, neoliberismo, entertainment e paura.

L'America non può più permettersi la guerra. Ma non può nemmeno permettersi la pace. Alla fine torniamo lì. Non è (solo) una questione psichiatrica. È una questione di conti.

La ragione per cui oggi l'amministrazione americana esita, tentenna, improvvisa, è che non può più lanciare guerre a debito come ai bei tempi. Il dollaro non tiene. I vassalli cominciano a fiutare l'aria. Il costo di una nuova guerra totale sarebbe la dissoluzione dell'egemonia stessa.

E allora si cerca di convincere l'Europa ad armarsi. Si parla di "difesa comune", di "responsabilità strategica", ma il punto è solo uno: l'Impero ha bisogno che i suoi satelliti paghino il conto.

Chi si oppone – come Sanchez – viene considerato debole. Chi si allinea – come Meloni e Crosetto – viene premiato. Ma in entrambi i casi, siamo già nella partita. E non sarà Trump, con le sue smorfie, a decidere come finirà. Sarà il sistema. Quello vero. Quello che non va alle urne, non si trucca, non sbraita. Ma detta il prezzo.

No, l'imperatore non è pazzo. È lucido. Forse più lucido di noi. Il suo ghigno è l'eco di un sistema che ha perso ogni equilibrio, ma non smette di voler dominare. E ogni volta che lo osserviamo con disprezzo, convinti che sia solo un clown impazzito, ci dimentichiamo che il circo lo stiamo pagando noi. Con le tasse. Con le basi NATO. Con le armi inviate. Con l'assuefazione allo spettacolo.

Forse è tempo di smettere di chiedersi che cosa ha nella testa Trump. E cominciare a chiederci che cosa abbiamo nella nostra, per continuare a seguirlo.


Iscriviti alla newsletter

* indica requisiti obbligatori

Intuit Mailchimp

Immagina un ragazzo, Marcello, che a 18 anni dice: "Non voglio un voto, voglio solo essere guardato". Non è una frase di circostanza, ma un urlo di richiesta di riconoscimento. Perché succede che un sistema educativo nato per formare persone riduca i giovani a numeri e schede di valutazione? La psicologia di comunità ci aiuta a capire come...

C'è un dettaglio che dovrebbe farci riflettere, ma che ormai passa quasi inosservato. Ogni volta che Trump alza la voce contro un paese — Iran, Cina, Messico, non importa — qualcuno corre a vedere l'andamento della borsa, il valore delle crypto, i movimenti di certi titoli legati all'energia o alla sicurezza. Non perché tema una guerra. Ma perché...