Tradizione e Tradimento

26.07.2025

di Nicola Accordino

Ci viene ripetuto così spesso da crederci anche noi: "È sempre stato così".

Ma non è vero. Niente è mai sempre stato così. E quando qualcuno te lo dice, sta cercando di venderti un'illusione di stabilità. Un'illusione che puzza di paura. Di controllo. Di obbedienza.

La tradizione — quella con la T maiuscola, solenne, scolpita nella pietra — non esiste. È una costruzione. Ed è una costruzione recente. L'idea stessa di "tradizione" come qualcosa di eterno nasce nell'Ottocento, quando gli antropologi occidentali iniziarono a classificare le culture come insetti in una teca: popoli "primitivi", "civilizzati", "tradizionali", "moderni". Un gioco di etichette. Un modo per fissare il tempo e congelare l'identità.

Ma la verità è che le tradizioni cambiano. Sempre. Non sono monoliti. Sono organismi. Respirano. Si trasformano. Mutano. Sono il risultato di deviazioni diventate norma. Errori diventati sapore.

Prendi mia madre. A un certo punto ha cominciato a fare la parmigiana di melanzane mettendo in mezzo uno strato di patate fritte, tagliate a fette. Non ricorda nemmeno il motivo. Magari le era avanzato qualcosa, magari aveva voglia di cambiare. Fatto sta che ci è piaciuta. E per quarant'anni, a casa mia, quella è diventata la parmigiana. Io pensavo fosse normale. Poi ho scoperto che era solo nostra. Una deviazione diventata tradizione. Una variazione che ha preso radici.

Ecco perché è assurdo usare la parola "tradizione" per definire chi ha diritto di esistere e chi no. Per dire che c'è un solo modo giusto di essere famiglia. Un solo modo di essere uomo. Un solo modo di essere donna. Un solo modo, in definitiva, di stare al mondo.

Tutte queste narrazioni vogliono solo ridurre l'umano a una formula binaria. Maschio o femmina. Normale o deviato. Giusto o sbagliato. Una semplificazione comoda, utile per chi vuole comandare. Perché è più facile controllare ciò che è prevedibile. Più facile vendere. Inquadrare. Giudicare.

Ma noi non siamo nati per essere etichette. Siamo variazione continua. Siamo sfumature. Due gemelli monozigoti non sono identici. Figurati otto miliardi di persone. Chi difende la tradizione come se fosse sacra, spesso non lo fa per cattiveria.

Lo fa per paura.

Paura che il mondo cambi troppo in fretta. Che diventi irriconoscibile. Che si perda un ordine, una bussola, una logica. Si teme che se si mette in discussione ogni regola, arrivi l'anarchia, il caos, il "tutto è permesso".

Ma non è così.

Accettare la diversità non significa cancellare ogni struttura. Non significa buttare via il senso. Significa semplicemente riconoscere che non esiste una sola forma per vivere bene. Che la vita non è una linea retta, ma una rete. Che non c'è un percorso obbligato, ma infinite possibilità. 

Noi non siamo acqua da imbottigliare. Siamo acqua che prende la forma del contenitore, ma può anche scavalcarlo. Può evaporare, può penetrare, può scomparire e riapparire in un'altra forma. La nostra essenza è fluida. E questa fluidità non è pericolosa. È fertile. È da lì che nasce la cultura. Da lì che nasce il cambiamento.

Da lì che nasce la libertà vera.

Immagina una persona costretta a vivere una vita che non sente. A fare un lavoro che non ama. A costruirsi una famiglia che non desidera. A recitare un ruolo che non gli appartiene.

Succede ogni giorno.

Quando lavoravo in un bar all'interno di una grande banca tedesca, vedevo ogni mattina ragazzi appena laureati, al primo giorno di lavoro. Giacca stirata, occhi spenti. Erano già stanchi. Non perché il lavoro fosse difficile. Ma perché non era il loro. Ricordo un ragazzo che avrebbe voluto fare il modellista di plastici. Era bravo. Preciso. Appassionato. Ma era finito in banca. Perché? Perché i genitori volevano un "posto sicuro". Un altro sognava di lavorare come assistente sanitario. Ma la madre gli aveva detto che era un lavoro da poveri, da stranieri. Lui era figlio di persone "per bene".

Sono centinaia di migliaia, così. Persone costrette a recitare la vita scritta da altri. Persone che magari farebbero benissimo quello che desiderano, ma che non ci proveranno mai. E il mondo perderà tutto ciò che avrebbero potuto offrire. 

La tradizione, in questi casi, non protegge. Imprigiona. Blocca. Spegne.

Il vero problema non è la libertà. Il vero problema è l'omologazione. È l'idea che ci sia un solo modo giusto di esistere. Un solo modo "normale" di amare. Un solo modo rispettabile di lavorare. Una sola identità possibile.

Ma se ci conformiamo sempre, alla fine perdiamo. Perdiamo il nostro potenziale. Perdiamo quello che saremmo potuto diventare. Perdiamo la nostra unica, irripetibile, inimitabile variazione.

Il punto non è abolire le tradizioni. Il punto è riconoscere che cambiano. Che devono cambiare. Che sono il frutto della vita, non della paura. E che ogni deviazione è una possibilità. Ogni variazione è un seme. 

Forse mia madre non lo sapeva, ma con quella patata nella parmigiana, ha inventato una piccola rivoluzione.
E da quella rivoluzione ne sono nate altre. Così si muove il mondo.


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