Immagina un uomo, tremila anni fa, inginocchiato nella polvere davanti al corpo del fratello. Gli hanno portato via il bestiame, e con lui anche la vita. Nessuna polizia, nessun tribunale. Solo clan, tribù, vendette. La rabbia ti acceca, ma anche la paura ti suggerisce prudenza. Uccidere uno dei loro porterà altri morti, e così avanti, in un cerchio che non ha fine. Allora nasce l'idea: non tutto, non il caos. Solo un occhio per un occhio. Una giustizia che limiti, che regoli, che argini l'istinto. È già un progresso: la vendetta diventa calcolata, bilanciata, e in un certo senso, giusta.
È da qui che parte la lunga storia della reciprocità: non come espressione del cuore, ma come meccanismo di sopravvivenza. Una tecnologia sociale rudimentale, che mette un tappo alla violenza e lo chiama equilibrio. La legge di Hammurabi non è una poesia sulla compassione: è un manuale per evitare l'autodistruzione collettiva.
Eppure, lentamente, quella logica iniziale — che se mi fai del male io ho diritto a farti lo stesso — si trasforma. Si evolve. Si complica. Nelle culture antiche trovi già tracce di un'altra forma di reciprocità, meno vendicativa e più costruttiva. I Greci la chiamavano xenia, l'ospitalità sacra tra stranieri. Un codice non scritto che imponeva al padrone di casa di accogliere, nutrire e proteggere lo sconosciuto, perché domani potrebbe toccare a te essere straniero e solo. L'altro non è solo un nemico potenziale: è anche un possibile riflesso di te.
A Roma, quando i tribuni della plebe lottano per il diritto al grano, non stanno chiedendo carità, ma rivendicando un posto nel patto. Se noi combattiamo nelle vostre guerre, voi dovete garantirci il pane. Il principio resta quello: do ut des. Ma la posta in gioco si allarga. Non è più solo l'onore o la vendetta: è la coesione del corpo sociale. È la tenuta dell'intero edificio politico.
Con il cristianesimo, la faccenda si radicalizza. L'ordine naturale — ti do se mi dai — viene stravolto da una pretesa scandalosa: dare anche a chi non ti dà nulla. Amare il nemico. Offrire l'altra guancia. Aiutare il povero come fosse tuo fratello. È un capovolgimento morale, ma anche strategico: creare una comunità basata non più sul bilanciamento dei torti, ma sulla gratuità. Eppure, anche lì, la reciprocità non scompare. Si sublima. Diventa escatologica. "Sarà il Padre vostro a rendervi il centuplo." È un altro tipo di calcolo, proiettato all'infinito. La logica del dare resta. Cambia solo il destinatario del contraccambio.
Nel tempo, questa idea si laicizza. Si fa politica, economia, diritto. Diventa sindacato, mutua, previdenza. E infine, welfare.
Il welfare state è la forma moderna, impersonale e codificata di quel principio antico. È l'istituzionalizzazione della reciprocità, depurata dalla morale religiosa e dalla vendetta tribale. Tu versi contributi oggi, perché domani potresti cadere. E anche se non cadi tu, cadrà tua madre, tuo figlio, il vicino di casa. E se la società intera è più stabile, anche tu starai meglio. È un patto tra sconosciuti, un'assicurazione collettiva basata non sulla bontà, ma sull'intelligenza.
È qui il punto che molti faticano a capire: il welfare non è un premio ai meritevoli né un'elemosina ai deboli. È una scommessa sulla fragilità. È il riconoscimento istituzionale del fatto che nessuno è invulnerabile. Che prima o poi, tutti abbiamo bisogno.
Ma oggi questa logica è sotto attacco. Non solo da parte dei soliti liberisti, ma anche da una narrazione culturale che ha idolatrato l'autosufficienza, trasformandola in religione. Il culto del self-made-man, del "ce la puoi fare se vuoi", ha avvelenato il concetto stesso di legame. Chi riceve un aiuto è visto come debole. Chi lo offre, come un fesso. La reciprocità viene derisa, scambiata per buonismo, per retaggio novecentesco, per nostalgia da statalisti depressi.
Eppure, se guardi bene, la reciprocità è ovunque.
Quando un genitore porta il figlio all'asilo e saluta l'educatrice, sta affidando qualcosa di prezioso a una struttura costruita su quel patto. Quando un operaio sale su un'impalcatura, si fida che qualcuno abbia fatto controlli di sicurezza. Quando prendi l'autobus o ti vaccini o chiedi il congedo parentale o ti curi in ospedale, stai attivando, senza pensarci, un sistema costruito su decenni di contributi reciproci.
È il tessuto invisibile che tiene insieme la società. Non lo noti finché non si strappa.
Eppure oggi — ironicamente — la parola "reciprocità" viene usata proprio da chi vuole smantellarla. Ti dicono: "Tu non ricevi nulla, ma paghi le tasse: dov'è la reciprocità?" Oppure: "Io lavoro, e quell'altro prende il reddito di cittadinanza: che giustizia è mai questa?"
Come se la reciprocità dovesse essere immediata, personale, misurabile in centesimi. Come se non fosse più un patto sociale, ma un contratto commerciale.
Questo modo di pensare è velenoso. Riduce l'idea di società a un registratore di cassa. E produce l'illusione che si possa vivere bene in un mondo dove ognuno si fa i fatti suoi, dove tutto è individuale, dove la fragilità è un reato, dove chi cade è colpevole, e chi aiuta è scemo.
La verità, per quanto scomoda, è che la reciprocità non è un lusso. È una necessità. È ciò che ci distingue dagli algoritmi, dai predatori, dagli automi. È la grammatica silenziosa che regge ogni forma di convivenza. E il welfare ne è la sua declinazione più matura e complessa.
Chi la attacca, spesso, ha già goduto dei suoi frutti. È stato curato, istruito, protetto. E ora, con la pancia piena, sputa nel piatto.
Succede. È umano. Ma non è giusto.
O meglio: non è reciproco.