Calco, Tiare e omofobia

22.07.2025

di Nicola Accordino

Immaginate questa scena: Un bambino compie 8 anni. È felice, sorride. Ha una torta a tema Lilo & Stitch, un vestitino colorato, una tiara in testa. È la sua festa. La sua infanzia. Il suo diritto a essere chi è. E accanto a lui, suo padre – un calciatore professionista, una star – che lo guarda con orgoglio. Lo fotografa. Condivide il momento.

Ora immaginate la reazione. Ma non del bambino. No. Quella degli adulti. Degli spettatori. Degli utenti social. Degli opinionisti improvvisati.

Insulti, odio, omofobia, scherno. E una valanga di gente che, sotto la foto, si sente in dovere di «difendere i valori», come se un compleanno potesse mettere in pericolo la civiltà occidentale.

Questo è successo a Pedro, ex Barcellona, oggi alla Lazio. Un calciatore che ha semplicemente postato una foto con suo figlio Marc, 8 anni. Una festa tenera, ingenua, colorata. Che però, nel nostro paese, ha attivato lo stesso sistema nervoso che un tempo si usava per bruciare le streghe.

Ma cosa vedono, esattamente? Perché, davvero, la domanda è questa: cosa vedono queste persone?

Vedono un bambino sorridente con una tiara. Ma nella loro testa, succede qualcosa di malato: sessualizzano. Proiettano su un gesto infantile tutto il loro disagio, la loro paura, le loro repressioni. Per loro, ogni scelta è subito un orientamento. Ogni sfumatura, una minaccia.

E allora si indignano. Ma non per amore dei bambini. No, anzi. I bambini, in fondo, li odiano. Li temono. Perché i bambini sono liberi. E loro no.

Che poi, a 8 anni, vuoi anche essere un dinosauro. O Spiderman. Così, per dire. Il bambino vuole volare. Vuole i poteri. Vuole le ali. Vuole essere Stitch, Elsa, Batman, Sailor Moon, Hulk e una giraffa con gli occhiali, tutto insieme. E tutto questo è sacrosanto. È infanzia. È sacra. È il suo diritto di esplorare il mondo senza limiti, senza etichette, senza crociate.

Ma niente. Il problema non è mai il bambino. Sono sempre gli adulti. Un paese che urla "libertà" solo quando si tratta di se stesso

Viviamo in una nazione che piange ancora per i due mesi passati in casa nel 2020, che ha fatto del Green Pass il simbolo dell'oppressione globale, ma che poi si mette in fila, puntuale, a commentare indignata le unghie di un bambino, la voce di un ragazzo, l'abito di una bambina, la libertà di un padre.

Gente che grida: "Qualcuno pensi ai bambini!", mentre li demolisce, li umilia, li condanna. E non è nemmeno incoerenza. È proprio ignoranza organizzata.

Perché qui, in Italia, parlare di libertà è facile. Viverla, molto meno. Qui si applaude l'amore solo se conforme. Si tollera la libertà solo se non disturba. Si idolatra la famiglia solo se è conforme all'album delle figurine del Mulino Bianco.

La sindrome della vecchina del quartiere È lo stesso meccanismo di quella vecchina che ti vede e ti chiede: "Ma quando ti sposi?". Non è cattiva, è solo rimasta lì. A una concezione della vita fatta di tappe predefinite, ruoli assegnati e silenzi garantiti. E ora, che i figli vogliono essere liberi, si scandalizza. Ma mica per male, eh. "È per il loro bene".

Sempre per il loro bene, guarda caso.

E i padri? Essere padre, per troppi, ancora oggi vuol dire: aver dato il seme. Stop. Poi, se proprio si deve intervenire, è per assicurarsi che il figlio sia virile, forte, incazzato, competitivo. E che la figlia stia "al suo posto". Gonne no. Sorrisi moderati. Sguardi bassi. Perché sennò "se la va a cercare".

E invece, essere padre vuol dire stare lì. Accanto. Dentro. Dietro. Davanti. Sempre. Vuol dire imparare a tacere. A non proiettare. A non usare tuo figlio come stampella del tuo ego. Vuol dire proteggere la sua unicità, anche quando non la capisci.

Perché un padre che ama davvero, non corregge il figlio: lo accompagna

Pedro lo ha fatto. Ha accompagnato suo figlio. Non lo ha nascosto. Non lo ha corretto. Non ha detto "non postare". Non ha detto "questo no". Ha detto: "Ecco mio figlio. È felice. E io sono fiero."

Eppure, la gente urla. Urla perché ha paura. Perché è repressa. Perché ha confuso la propria identità con una checklist da difendere con i denti. E quando vede un bambino felice che non rientra in quella lista, si sente attaccata.

Urla perché è cresciuta senza parole per nominare le emozioni. Senza strumenti per navigare la complessità. Urla perché nessuno le ha mai spiegato che esiste una cosa chiamata educazione affettiva, e che non è un'ideologia, ma una necessità vitale.

Violenza pubblica, empatia zero

Non è la prima volta. Succede continuamente. Succede ai figli dei VIP e ai figli del panettiere. A chiunque osi essere se stesso in un paese che ama più la rimozione che la comprensione.

Succede a Mario, un ragazzino di 12 anni di Treviso, preso di mira a scuola perché "cammina strano". Succede ad Aurora, insultata sul bus perché si veste "troppo colorata". Succede a centinaia di famiglie che ogni giorno devono scegliere: proteggere i propri figli o nasconderli.

E ogni volta, la risposta pubblica è la stessa: minimizzare, accusare i genitori, dire "è colpa dell'ideologia gender", dire "è solo una fase", dire "non fate propaganda coi bambini".

La verità è che, come popolo, facciamo pena Sì. Facciamo proprio pena. Non sappiamo ascoltare. Non abbiamo empatia. Non sappiamo stare in silenzio. Non sappiamo essere felici per gli altri. E soprattutto: non sappiamo distinguere tra ciò che ci riguarda e ciò che non ci riguarda affatto.

C'è chi ha fatto della libertà uno slogan e poi si scandalizza davanti a una tiara. Chi si commuove per il presepe ma odia i bambini veri. Chi cita la Costituzione solo quando gli fa comodo, ma poi non sa nemmeno dove sta scritto che "ogni persona ha diritto al pieno sviluppo della propria personalità".

E allora serve una riforma. Ma non scolastica: sentimentale. Serve una scuola di affettività. Di ascolto. Di rispetto. Di realtà. Non solo per i giovani. Per tutti. Perché qui la gente ha fatto la maturità, ma non è mai diventata adulta.

Qui si pensa che "fare il padre" sia sinonimo di controllo. Di imposizione. Di virilizzazione forzata.

Invece, fare il padre vuol dire anteporre i desideri e la natura del figlio ai propri pregiudizi. Vuol dire abbandonare l'ego per abbracciare l'altro.

Se non permetti a chi ami di esprimersi come vuole, vuol dire che non lo ami davvero.


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