Si nasce incendiari… e si può scegliere di non morire pompieri.

31.05.2025

di Nicola Accordino

Quante volte l'abbiamo sentita dire? "Si nasce incendiari, si muore pompieri!". Sotto forma di battuta, come una rassegnata constatazione del tempo che passa, come se invecchiare significasse per forza diventare sordi, ciechi e muti di fronte ai sogni che un tempo ci facevano battere il cuore. Ma io una domanda ce l'ho: perché dovremmo per forza diventare pompieri? Perché dovremmo spegnere il fuoco che abbiamo dentro, invece di usarlo per scaldare chi ci viene dietro? 

Oggi vedo tanti genitori che si scagliano contro i propri figli. Li accusano di essere fragili, confusi, "rintronati dalla psicologia". Gli dicono che ai loro tempi si educava a schiaffi, e "guarda come siamo venuti su noi: mica così male". E invece no. No, non siete venuti su così bene se oggi non siete in grado di ascoltare, di capire, di mettervi in discussione. Se usate ancora la nostalgia come una clava per difendervi dalla responsabilità. 

Siamo la generazione cresciuta a pane e MTV, tra i primi CD e i videogiochi su floppy disk. Non abbiamo urlato 'no future' ma abbiamo imparato a mandare tutto a puttane con un click. Da adolescenti, i nostri sogni di rivoluzione si sono sciolti come gelato al sole di luglio: oggi siamo il poster di 'Vivi di meno, lavora di più', con mutui, SUV e abbonamenti Netflix che ci soffocano il sonno. La rabbia? È andata a bere un aperitivo con la comodità, lasciandoci con una playlist di rimpianti e procrastinazioni.  

Il sociologo Zygmunt Bauman parlava di "generazioni liquide": noi siamo la prima che si è sciolta senza nemmeno combattere, arrendendosi al precariato affettivo, alla flessibilità imposta, al consumo compulsivo come anestetico. E poi puntiamo il dito sui ragazzi di oggi che almeno ci provano a dire "così no", che scendono in piazza per l'ambiente mentre noi accendiamo il SUV per fare 300 metri. Ricordi quando ci dicevano che con quei capelli sembravamo tossici? E ora ci scandalizziamo per una tinta blu, un piercing, un'identità fluida. Ricordi quando ci chiudevamo in camera con i Radiohead a tutto volume perché nessuno ci capiva? E ora sminuiamo l'ansia sociale dei nostri figli dicendo che è solo una moda. Ma allora cosa abbiamo imparato? 

La psicologia – quella che una certa destra ignorante chiama "del piagnisteo" – ci ha insegnato che il dolore va accolto, non zittito. Che un bambino picchiato diventa un adulto spezzato. Come ha scritto Alice Miller, la violenza "educativa" non si dimentica mai. E se è vero che molti sono "cresciuti bene lo stesso", non è grazie alle botte ma nonostante esse. 

La famiglia non è implosa: è evoluta. È diventata più orizzontale, meno gerarchica, più relazionale. Ma il cambiamento, si sa, fa paura. Fa paura a chi ha costruito la propria identità su un mondo che non c'è più, dove l'uomo lavorava fino a crepare e la donna taceva e puliva. Dove i figli dovevano solo ubbidire, e chi chiedeva "perché?" prendeva una sberla in cambio. Ma allora diciamolo: era davvero meglio prima? Davvero vogliamo tornare là, con i bambini zitti, le donne invisibili e gli uomini infelici? No. Il problema non è la forma della società. È il rispetto che le manca. E non parlo di quel rispetto farlocco fatto di inchini e silenzi imposti. Parlo di rispetto vero: ascolto, accoglienza, possibilità. Le famiglie non sono implose: si sono trasformate. Il modello ottocentesco con papà lavoratore e mamma muta non regge più, perché il capitalismo ha fatto a pezzi anche quello. Ha tolto tempo, ha creato solitudini, ha isolato i membri della stessa casa dietro schermi diversi. 

E allora la questione non è "tornare indietro", ma costruire qualcosa di nuovo, dove il rispetto non è obbedienza cieca ma riconoscimento reciproco. Ce lo insegna anche la sociologia: ogni società cambia, ma spesso resiste al cambiamento. E quando cambia troppo in fretta, come sta accadendo ora, la reazione più comune è il rifiuto. Il problema, però, non è il cambiamento. È l'immobilismo. È pensare che basti fermare il mondo per evitare di cadere. 

Il sociologo Pierre Bourdieu parlava di violenza simbolica quando una cultura dominante si impone come naturale: oggi quel dominio è l'efficienza, la performance, la competizione. Ma l'essere umano non è una macchina da curriculum. I nostri figli ce lo stanno dicendo, noi fingiamo di non sentire. Perché la psicologia – sì, quella scienza bistrattata che "ha rovinato tutto" – ci sta insegnando a capirci. Sta tentando di rompere il ciclo dei traumi tramandati, degli errori che si ripetono solo perché nessuno ha il coraggio di fermarsi e dire: "Ho sbagliato." 

 Ci fidiamo della scienza solo quando ci dice che lo smartphone fa figo o che il botox ringiovanisce. Ma quando ci dice che stiamo uccidendo il pianeta, allora è "una bufala". Quando ci dice che il patriarcato è tossico, che il maschilismo uccide, che l'omofobia fa danni psicologici, improvvisamente la scienza diventa "ideologia". 

Abbiamo fatto errori. Abbiamo accettato, taciuto, consumato, distrutto. E ora? Ora insultiamo chi osa dire che no, non va bene così? Il mondo che stiamo lasciando ai nostri figli – diciamocelo, cazzo – non è migliore di quello che abbiamo ereditato. È più inquinato, più individualista, più alienato. E se noi adulti, quelli che hanno ceduto al compromesso, pensiamo che i nostri figli faranno meglio imitando noi, siamo dei folli. La verità? È che non vogliamo cambiare. E la paura del cambiamento la mascheriamo da "buon senso", da "così si è sempre fatto", da "una volta era meglio". Ma come dice Umberto Galimberti, la paura è il contrario della libertà. E chi ha paura non è mai un buon educatore. Dove abbiamo messo la poesia? Quella che ci parlava di futuro, di rottura, di rivoluzione? "I figli che non vogliono essere i padri e i padri che non vogliono essere stati figli." (Pier Paolo Pasolini, ancora attuale come un pugno nello stomaco.) 

Chi ha lottato davvero, non invidia la quiete borghese, ma la rabbia giovane che smuove. È la stessa scintilla che brucia nei versi di Rimbaud, nel grido di Louise Michel, nella penna di Albert Camus, che scriveva: "Ogni generazione si crede destinata a rifare il mondo. La mia sa invece che dovrà impedire che il mondo si disfi". 

Questi ragazzi e ragazze che scioperano per il clima, che lottano per i diritti, che si rifiutano di lavorare 60 ore a settimana per 800 euro… non sono viziati. Sono svegli. Sono quelli che ci stanno dicendo che non possiamo più permetterci di chiudere gli occhi. E mentre le democrazie vacillano e i diritti arretrano, noi stiamo ancora qui a chiedere "dove sono i valori di una volta?", come se bastasse la nostalgia per salvare il futuro. 

Non tornerà nulla come prima. Ma può essere meglio di prima. Basta vivere di nostalgia per un mondo che in fondo non era poi così giusto. Non serve rimpiangere "quando c'erano le mezze stagioni" se poi il pianeta ci va a fuoco ogni estate. Non serve dire "un tempo c'era rispetto" se quel rispetto era paura. Il rispetto vero è accoglienza, empatia, dialogo. È sentirsi parte di una comunità che non ti giudica ma ti accompagna. Se vogliamo che i nostri figli vivano in un mondo migliore, dobbiamo essere migliori noi per primi. E smettere di aspettare che siano loro a salvarci. 

Se smettiamo di sputare su chi combatte. Se smettiamo di dire "al mio tempo era così" e iniziamo a dire "al tuo tempo, come posso aiutarti?". Se scegliamo di non morire pompieri, ma di diventare alleati di chi ancora porta il fuoco negli occhi. È il momento di alzarsi in piedi. Non per insegnare, ma per imparare. Non per comandare, ma per accompagnare. Non per giudicare, ma per crescere. Insieme. Perché il futuro non è una minaccia: è una possibilità. 

E non ce lo daranno i giovani. Ce lo prenderemo insieme, o non sarà di nessuno. 


Viviamo convinti che ciò che abbiamo vissuto sia sufficiente a capire il mondo. Che basti il nostro istinto, la nostra esperienza, le "sensazioni a pelle" per interpretare la realtà. Ma la verità – quella che brucia piano e ci lascia un po' nudi – è che il nostro vissuto è una visione parziale. Una lente graffiata, un binocolo puntato solo...

Iscriviti alla newsletter

* indica requisiti obbligatori

Intuit Mailchimp