Una maestra elementare è stata licenziata dopo che un padre di uno dei suoi alunni ha scoperto che la donna aveva un profilo su OnlyFans. A pagamento. Contenuti espliciti. Una maestra. Con dei bambini.
Per fortuna, questo padre ha avuto il coraggio di denunciarla. Di esporsi. Di proteggere suo figlio – e tutti gli altri – da un esempio così pericoloso. Una donna che di giorno insegna la grammatica e di notte guadagna con il corpo.
Il fatto è stato reso pubblico. Il nome della maestra è stato sbattuto in prima pagina, commentato, analizzato, giudicato. È il minimo, no? Chi educa dei bambini non può avere una doppia vita. Non può inviare immagini di sé in lingerie o in pose sessualmente esplicite. Non può essere un riferimento scolastico ed erotico allo stesso tempo.
Il padre invece no, lui ha fatto solo quello che qualsiasi uomo curioso farebbe: ha cercato. Ha pagato. Ha guardato. Poi ha denunciato. Ecco, fermiamoci qui. Rileggiamo: ha cercato. ha pagato. ha guardato. poi ha denunciato.
L'uomo ha compiuto ogni passaggio consapevolmente. Nessuno l'ha obbligato. Nessuna pubblicità invasiva, nessun errore di distrazione. Ha saputo dove andare, come pagare, cosa guardare. E solo dopo aver consumato ha deciso che la donna che aveva cercato non era degna di educare suo figlio.
La scuola ha accolto la denuncia e ha preso provvedimenti. Il nome della maestra è diventato pubblico. Il suo volto, la sua carriera, la sua reputazione, tutto finito al macero. Il nome del padre, invece, no. Non pervenuto. Protetto. Come se la sua parte non fosse rilevante. Come se l'atto voyeuristico, la curiosità sessuale, la volontà di denuncia dopo aver pagato fossero moralmente neutri. O peggio, giusti.
La parte più amara arriva dopo. I commenti. Le opinioni. Soprattutto quelli di molte donne. "Se non voleva problemi, non doveva esporsi". "Chi insegna deve dare il buon esempio". "Che messaggio passa ai bambini?".
Il patriarcato può dormire sonni tranquilli. Ha infiltrate ovunque. Donne che attaccano altre donne per sentirsi più sicure. Per proteggere la loro "rispettabilità". Come se ci fosse un solo modo giusto di essere donna: discreta, materna, sobria. Silenziosa. Casta. Soprattutto invisibile.
L'esistenza di una donna che si mostra, che guadagna dalla propria sessualità, che decide di non vergognarsi del proprio corpo è intollerabile. Non importa se ha sempre lavorato bene. Non importa se non ha mai portato il suo privato a scuola. Non importa nemmeno che OnlyFans sia un sito a pagamento, accessibile solo a chi lo cerca, lo vuole, lo desidera. Il fatto che una maestra possa avere desideri, un corpo, un lato erotico... questo sì, è inaccettabile.
Il padre viene assolto culturalmente. Ha solo cliccato. Ha solo pagato. È un uomo. La maestra invece viene sbranata. Colpevole di non essere rimasta nel recinto. E mentre tutti urlano allo scandalo educativo, nessuno si chiede che tipo di esempio dà un uomo che guarda i contenuti sessuali della maestra del proprio figlio. o peggio, che tipo di lezione insegna una società che punisce chi si mostra e protegge chi consuma.
Per molte, condannare la maestra è rassicurante. Permette di non guardare dentro di sé. Di non chiedersi: Quanta rabbia ho verso una donna libera? Perché mi disturba chi è disinvolta col proprio corpo? Cosa mi è stato insegnato a considerare "decente"? Da chi mi sto difendendo, esattamente?
Chi attacca questa maestra non difende i bambini. Difende un ordine. Un sistema. Una gerarchia che premia l'obbedienza e punisce chi rompe lo schema. Una donna che si espone è un pericolo. Un uomo che consuma in segreto è solo… un uomo.
Chi condanna con più ferocia spesso non lo fa per amore della verità, ma per proteggere l'immagine che ha costruito di sé. Giudicare è un modo per non guardarsi. Per proiettare all'esterno i propri desideri repressi, le paure mai risolte, l'invidia per chi osa quello che tu non puoi nemmeno permetterti di pensare. È più facile gridare "scandalo" che ammettere: "quella libertà mi spaventa". O peggio ancora: "mi attira, e questo mi fa sentire sporco".
In psicologia sociale questo meccanismo si chiama razionalizzazione moralistica: trasformare i propri impulsi in crociate etiche. Non è la maestra su OnlyFans a disturbare. È il fatto che lei lo faccia senza vergogna. Che non chieda perdono. Che non si nasconda. E quindi la si punisce. Perché mostra una possibilità che altri non hanno il coraggio nemmeno di nominare.
Chi giudica, spesso, non difende una morale, ma la propria immagine pubblica. Vuole apparire come "persona perbene", come "buon genitore", come "madre esemplare". Ma è solo un sepolcro imbiancato: fuori ordine e rispetto, dentro invidia, frustrazione, desiderio non vissuto. Estetica, non etica.
E in tutto questo, i bambini? Strumentalizzati. Tirati in ballo come scudo morale. Quando in realtà i bambini non hanno bisogno di adulti che reprimono gli altri, ma di modelli coerenti, autentici, capaci di distinguere tra la sfera pubblica e quella privata senza confondere educazione e controllo.
La maestra non ha fatto nulla ai bambini. Il padre sì. Ha introdotto un giudizio sessualizzato dentro un contesto scolastico che doveva restarne immune. Ha portato nella scuola il suo sguardo voyeuristico. Ha rovesciato la colpa sulla donna, per purificarsi.
Sociologicamente, è un copione antico: la donna trasgressiva viene punita, l'uomo che trasgredisce viene capito, la società applaude la punizione, e si autoconvince di essere ancora sana. e vissero tutti infelici e contenti.
Ma non è salute. È rimozione. È isteria collettiva travestita da ordine morale. E chi vi partecipa con entusiasmo, chi gode nel vedere "la troia messa a posto", dovrebbe farsi una domanda sola: che parte di me sto cercando di cancellare punendo lei?
La maestra su OnlyFans non è sola. Fa parte di una lunga lista di "figure disturbanti" che la società colpisce quando sente che il controllo vacilla. Sono le crepe nel muro. E allora si punta il dito per ricostruire quell'ordine apparente.
La donna in carriera è "fredda", "senza cuore", "arrivista", "senza istinto materno". Perché non si è piegata. Perché non ha chiesto il permesso. Perché osa occupare spazi che un tempo spettavano solo a uomini. E quindi va punita. O sminuita. "Avrà rinunciato a qualcosa." "Chissà chi ha dovuto usare." "Ma i figli chi glieli cresce?"
L'uomo omosessuale che vive apertamente è "esibizionista". Non importa quanto educato, composto, integrato. Disturba lo schema. Perché ricorda a molti eterosessuali quanto siano incatenati a ruoli mai scelti. Perché deve ostentare?" "Lo accetto, ma che non lo sbatta in faccia." Perché il problema non è lui. È il fatto che esista senza vergogna.
La ragazza grassa che si veste come vuole viene chiamata "volgare". Perché il suo corpo sfugge alla dittatura estetica. E si rifiuta di scomparire. Si prende lo spazio. Si mostra come soggetto, non come oggetto. Non chiede scusa per la cellulite. E quindi va colpita. Perché mette in crisi il patto silenzioso che lega la bellezza alla sottomissione.
L'uomo che non lavora 12 ore al giorno, che resta a casa coi figli, che cucina, che piange, che chiede aiuto: "Non è un vero uomo." Perché mostra un'altra via. Una via più umana. E questo fa crollare l'ideale tossico del maschio che vale solo se produce.
La ragazza che fa contenuti erotici online e guadagna bene rompe due tabù insieme: il corpo femminile non più a disposizione gratuita, e il lavoro femminile che non passa più dal permesso maschile. E quindi viene moralmente lapidata. Con parole che sembrano protettive ("pensa ai bambini"), ma sono solo forme educate di controllo ("stai al tuo posto").
Tutti questi esempi hanno una radice comune: il disagio che proviamo quando qualcuno vive liberamente qualcosa che noi abbiamo represso. Quello che Freud chiamava "rimozione", oggi esplode sotto forma di post indignati, tweet infuocati, interviste scandalizzate. Ma la sostanza è la stessa: proietto fuori ciò che non riesco a gestire dentro, attacco chi mi mostra ciò che non riesco a essere.
È per questo che le critiche più feroci vengono da chi dice di voler "proteggere". Non i bambini. Se stessi. Dal crollo di un'identità costruita su modelli rigidi. Dal terrore che il mondo sia più complesso di quello che ci hanno insegnato. Dal sospetto che forse, quella maestra, quella donna in carriera, quell'uomo gay, siano liberi davvero.
E allora la domanda torna, più urgente: chi sei tu, che ti senti in diritto di giudicare? Forse non un moralista. Solo qualcuno che ha paura di scoprirsi incompleto.