Ogni tanto esce una notizia che sembra scritta da un autore satirico con problemi di fiducia. Tipo quella della signora che ha finto per anni di avere una gemella, così da non dover salutare i colleghi per strada. O quell'uomo che ha finto di essere sordo per non parlare con la moglie. O la ragazza che ha inscenato una cecità...
“Ti ha rubato il lavoro?” – No fratè, ti ha inculato il sistema.
di Nicola Accordino

Due persone sono sedute su una panchina. Entrambe sono stanche, hanno perso il lavoro da poco, e non sanno come arrivare a fine mese. Davanti a loro passa un uomo in giacca, cravatta e un Rolex d'oro. Ha appena chiuso un contratto con una cooperativa che gli fornirà manodopera a metà prezzo. Tutti migranti, tutti senza voce. Poi si volta e grida alla panchina:
"Lui ti ha rubato il lavoro."
E se ne va. Ora, la domanda è: chi ha davvero tolto il pane di bocca a chi?
Il trucco è antico. Si chiama divide et impera. Metti due poveri l'uno contro l'altro e intanto, tu che hai potere e capitale, te ne stai tranquillo, incassi e nessuno ti disturba. Mentre l'uno guarda l'altro con sospetto — "è colpa sua" — nessuno guarda in alto. È lo schema che si ripete ogni volta che c'è crisi: i riflettori vengono puntati sull'ultimo arrivato. Il migrante, il rifugiato, il povero "che lavora in nero", il "senza contratto". Nessuno che si chieda chi glielo ha permesso. Nessuno che dica: chi ha creato le condizioni per cui un essere umano accetta di lavorare per tre euro l'ora?
La risposta è semplice, ma scomoda: non è il migrante che "ti ruba il lavoro", è il sistema che ha smantellato i diritti.
Non è concorrenza. È ricatto.
Il migrante spesso non ha alternative: ha lasciato un Paese in guerra, una carestia, una dittatura. Dorme in dieci in una stanza, accetta qualsiasi paga, qualsiasi orario. Non perché è "furbo", ma perché è disperato. E c'è sempre un padrone — italiano, spesso — pronto ad approfittarne. Quello sì che è furbo. Quello sì che ha scelto. Quello sì che si arricchisce.
Se non ci fosse chi lo sfrutta, nessuno potrebbe essere "concorrenza sleale". Ma fa comodo così: raccontare che il problema sei tu contro di lui, anziché tu contro chi ha messo entrambi nella stessa fossa e poi ha buttato via la scala.
Il vero successo di questo meccanismo sta nel fatto che chi perde il lavoro non si arrabbia con l'imprenditore che lo ha licenziato, o con lo Stato che ha chiuso gli occhi. Si arrabbia con il migrante.
È come se una persona venisse pugnalata alle spalle, e desse la colpa al coltello.
Sociologicamente, questo si chiama capro espiatorio. Lo spiegava bene René Girard: in ogni società, quando cresce la tensione e il caos, si crea un bisogno collettivo di sfogare la rabbia su un bersaglio facile, sacrificabile, possibilmente estraneo. Così si evita l'esplosione vera. Così si protegge il potere.
Il migrante diventa lo sfogo emotivo di un sistema che non vuole essere messo in discussione.
Il vero colpevole è il sistema che ha precarizzato tutti. Che ha distrutto il contratto collettivo. Che ha promosso le esternalizzazioni, le finte partite IVA, il lavoro a chiamata. Che ha permesso l'ingresso di manodopera a basso costo senza garantire né a loro né a te un minimo di dignità.
Il vero colpevole è quello che ha detto: "Meglio uno che lavora per la metà, piuttosto che pagare il giusto." E guarda caso, è sempre qualcuno che ha una poltrona, un'impresa, o un partito.
Quando ti dicono "è colpa loro"...pensaci bene. Perché forse ti stanno vendendo la favola che se non ci fossero i migranti, tutto tornerebbe a posto. Che il tuo lavoro verrebbe magicamente restituito. Che il tuo stipendio tornerebbe a crescere.
Falso.
Se il migrante sparisse domani, il problema resterebbe lo stesso: perché non era lui a decidere quanto valesse il tuo tempo. Era chi ti ha detto che puoi essere sostituito, in qualsiasi momento, da qualcuno che ha meno voce, meno tutele, meno diritti. E che nessuno si azzardi a difenderli entrambi.
Sai quando me ne sono reso conto davvero? Quando ho lavorato con migranti. Fianco a fianco. Quando ho visto gente con lauree, competenze, capacità incredibili — trattati come bestie da soma, mentre altri gridavano "tornatevene a casa" dalla poltrona della sala d'attesa.
E ho capito: non è odio. È paura mal indirizzata.
Chi sta sopra lo sa. E sorride. Più tu odi in basso, più lui sta tranquillo.
Se vuoi cambiare davvero qualcosa, smetti di guardare il tuo vicino come un nemico. E comincia a guardare chi ha fatto in modo che tutti e due siate sempre ricattabili.
Non ti ha rubato il lavoro. Ti ha fatto comodo pensarlo. E qualcuno, lassù, ha contato proprio su questo.
E poi c'è una cosa che non riesco a togliermi dalla testa. Perché io, in Germania, ci sono venuto davvero a lavorare. E no, non con i contratti d'oro che ci raccontano nelle fiabe. Ho lavorato in un ristorante italiano, e facevo quattordici ore al giorno per mille euro. Mille. E mi sentivo pure in colpa a lamentarmi, perché "dai, almeno hai un lavoro".
Ho conosciuto italiani che lavoravano per altri italiani, sempre all'estero, in strutture alberghiere, ristoranti, pizzerie, Firen, catering, robe pseudo-familiari: inquadrati per quaranta ore e ne facevano ottanta. Ottanta.
Vivevano negli alloggi offerti dai datori di lavoro — che poi erano anche la leva del ricatto: se dicevi qualcosa, se fiutavano un malcontento, ti buttavano fuori. Da casa. Dal lavoro. Dalla città. Dall'oggi al domani.
Ed erano italiani. Sfruttati da altri italiani. Quindi la domanda che mi ronza in testa è questa: quando torniamo a casa e ci lamentiamo che "i migranti ci rubano il lavoro", siamo davvero così sicuri di non essere già stati, altrove, il migrante di qualcun altro?
La verità è che è sempre lo stesso sistema merdoso.
Cambia solo il ruolo che ti tocca: a volte sei quello che sfrutta, altre volte quello che viene sfruttato. Ma il gioco è sempre lo stesso. E più sei cieco, più ti convinci che la tua miseria sia un privilegio. In Italia ci raccontiamo che "gli stranieri accettano tutto e ci rovinano il mercato".
Poi andiamo all'estero, e facciamo lo stesso identico meccanismo: accettiamo tutto — e spesso lo facciamo lavorando per altri italiani, che nel frattempo si sono messi la giacca buona del "piccolo imprenditore di successo".
È qui che si chiude il cerchio. Ed è qui che, se hai ancora un briciolo di onestà, ti viene da stare zitto e cominciare a pensare. Perché la lotta non è tra italiani e stranieri, ma tra chi ha il potere di sfruttare e chi viene spinto ad accettare qualsiasi condizione per non cadere nel vuoto.
E finché non lo capiamo, resteremo sempre carne da rotella — in una macchina che si nutre del nostro rancore mal indirizzato.
Due persone sono sedute su una panchina. Entrambe sono stanche, hanno perso il lavoro da poco, e non sanno come arrivare a fine mese. Davanti a loro passa un uomo in giacca, cravatta e un Rolex d'oro. Ha appena chiuso un contratto con una cooperativa che gli fornirà manodopera a metà prezzo. Tutti migranti, tutti senza voce. Poi si volta...