Una recita senza uscita

02.07.2025

di Nicola Accordino

Immaginate questa scena. Un uomo in giacca e cravatta insulta furiosamente un rider al semaforo. Gli urla contro di tutto, lo minaccia, scende dalla macchina. Poi, si rimette al volante, sistema la cravatta, risponde a una chiamata con tono posato. "Sì, dottoressa, la stavo proprio aspettando. Mi dica pure". La bestia rientra nella gabbia. Ma per un attimo è scappata. Ed era reale. Quel momento di follia non è un'eccezione: è l'emersione brutale di una tensione silenziosa che attraversa le nostre giornate, il corpo, le relazioni. La chiamiamo stress, ma è qualcosa di più profondo. È il risultato di vivere immersi in una finzione collettiva che tutti conoscono, eppure nessuno osa interrompere.

Vi presento l'ipernormalizzazione. Il termine nasce in URSS, coniato dall'antropologo Alexei Yurchak. Descrive l'assurdo quotidiano della tarda Unione Sovietica: un mondo in cui nessuno credeva più nei valori ufficiali del sistema, ma tutti continuavano ad agire come se ci credessero. Una grande messinscena. L'aggettivo "iper" è fondamentale: la normalità si esaspera fino a diventare una caricatura, una forma svuotata ripetuta meccanicamente.

Nel 2016, il documentarista Adam Curtis riprende il concetto per descrivere l'Occidente neoliberale. Secondo Curtis, viviamo dentro un sistema che ha perso il contatto con la realtà, ma che ci impedisce di immaginare alternative. L'economia è una facciata, la politica è spettacolo, i problemi collettivi vengono trattati come guasti tecnici da risolvere con algoritmi. Nessuno ci crede davvero, ma nessuno può smettere di recitare.

A livello psichico, l'ipernormalizzazione produce una forma di dissociazione quotidiana. Chiunque viva a lungo in un contesto che lo costringe a simulare coerenza, finisce per disgregare l'identità. La mente si protegge separando ciò che sente da ciò che fa. Si sorride al capo mentre dentro si urla. Si incoraggia il figlio a "darsi da fare" mentre si teme per il suo futuro. Si lavora in aziende che promuovono "valori" in cui nessuno crede. Tutto questo logora. L'ansia, la stanchezza cronica, l'incapacità di concentrazione non sono solo disturbi: sono segnali di un organismo che non regge più la dissonanza tra verità interna e finzione esterna.

In questo scenario, l'evaporazione delle figure autorevoli — come descritto da Recalcati — è centrale. I leader, i docenti, i genitori, non sono più riferimento simbolico, ma meri esecutori di ruoli. Nessuno indica più una direzione. Tutti gestiscono.

L'ipernormalizzazione è il risultato sociale di una perdita di immaginazione collettiva. Il capitalismo non è più solo un sistema economico: è diventato l'unica narrazione possibile. Tutto è diventato mercato: il tempo, le emozioni, le relazioni. Ogni aspetto dell'esperienza umana è stato trasformato in opportunità da ottimizzare.

Mark Fisher lo dice con chiarezza: è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo. Le città crollano sotto il peso del turismo e delle diseguaglianze, ma continuiamo a chiamarle "hub internazionali". Il lavoro precarizza ogni fase della vita, ma lo chiamiamo "flessibilità". La scuola si svuota, ma si parla solo di test e ranking. Nessuno crede più davvero a queste parole, ma le ripetiamo per evitare il vuoto.

Heidegger lo chiamava il dominio del "Si": si dice, si fa, si pensa, senza che nessuno lo voglia davvero. È la fuga dalla responsabilità dell'essere. È la vita vissuta come ruolo. La filosofia dell'esistenza, da Kierkegaard a Sartre, ha sempre denunciato questo: l'abitudine dell'uomo a nascondersi dietro convenzioni, a evitare l'angoscia del pensiero libero.

L'ipernormalizzazione è la versione sistemica e spettacolare di questa fuga. La vita è organizzata in ruoli e frasi fatte. La libertà non viene proibita: viene resa impensabile. E chi prova a vivere fuori copione viene trattato da ingenuo, da ribelle, da disturbatore.

Le crepe non emergono nei grandi eventi. Non nelle pandemie, non nelle guerre. Il sistema sa assorbire perfino le catastrofi. Le vere crepe sono individuali, intime, minime. Una maestra che si rifiuta di somministrare un test inutile. Un'impiegata che si rifiuta di sorridere meccanicamente. Un giovane che dice "non voglio fare carriera, voglio vivere".

Questi atti non sono eroici, ma reali. Sono gesti che tagliano la tela della finzione. Non cambiano il mondo, ma mostrano che è possibile scegliere. Sono interruzioni del flusso, e come tali, pericolose e preziose.

I disturbi psichici oggi sono l'effetto di una guerra silenziosa. Non tra persone, ma tra ciò che sentiamo e ciò che ci viene chiesto di mostrare. L'ansia, la depressione, il burnout, non sono solo malattie individuali: sono sintomi collettivi. Sono grida trattenute. Freud diceva che il sintomo è verità mascherata. In una società ipernormalizzata, il sintomo è l'unico linguaggio autentico rimasto.

Ogni volta che il corpo si rifiuta di lavorare, che la mente si spegne, che l'anima si ribella, non è solo disagio: è diserzione. È un modo non verbale per dire "questa normalità mi fa male". E finché continueremo a curare l'individuo senza cambiare il contesto, non guariremo. Solo sopprimeremo le voci più oneste.

Sui social, tutto questo trova un'esplosione quotidiana. La rabbia collettiva si incanala verso obiettivi sempre nuovi: politici, influencer, genitori, vicini. Ogni giorno si apre una nuova caccia. Ma non è odio ideologico: è disperazione camuffata. È la frustrazione di milioni di persone che non riescono più a stare nel personaggio e non sanno dove altro andare. I social sono la valvola della nostra ipocrisia. Ci permettono di urlare, ma senza cambiare nulla. Sono lo sfogo perfetto: catartico e sterile. Eppure, anche lì, a volte, qualcosa filtra. Un commento sincero. Un dubbio condiviso. Una domanda vera. Segni di umanità che resistono.

Non c'è una ricetta universale, ma c'è una direzione possibile. Smettere di fingere. Dire "non lo so" quando non si sa. Dire "non mi va" quando non ci si riesce. Cercare spazi in cui vivere relazioni non strumentali. Raccontare la propria storia senza edulcorarla. Trovare comunità piccole, fragili, ma vere. Dire qualche no. Abbandonare qualche palco.

Ogni gesto che rompe la finzione è già un gesto politico. Ogni silenzio che interrompe il rumore è già un inizio. La guarigione, oggi, passa più per l'autenticità che per la produttività. Non dobbiamo migliorare. Dobbiamo respirare.

Ripensiamo a quell'uomo al semaforo. La cravatta stretta, la voce posata, la telefonata educata. E sotto, la bestia. Non era pazzo. Era esausto. Intrappolato. Per un attimo aveva detto la verità, a modo suo. Nessuno lo ha ascoltato. Nessuno ha detto: "Anche io non ce la faccio più".

Ma forse è questo il punto. Non aspettare il crollo. Non aspettare la bestia. Dirlo prima. Dirlo piano. Dirlo insieme.

Perché se è vero che viviamo dentro una gigantesca recita, è anche vero che basta una voce fuori copione per far tremare tutto il teatro. E da lì, forse, ricominciare.


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