l’infanzia sotto pressione

08.07.2025

di Nicola Accordino

Al Salone del Libro di Torino 2025, lo scrittore Joël Dicker ha detto una frase semplice, quasi ovvia:"Sei un bambino. Devi goderti la vita e fare le cose che ti rendono felice".

Sembrava una carezza. Ma era un pugno. Perché oggi, dire una cosa del genere non è buon senso. È un atto di resistenza.

Viviamo in un mondo dove l'infanzia è diventata un investimento a rendimento rapido. Un progetto da gestire. Un potenziale da massimizzare. Se a cinque anni non sai due lingue, se a sei non suoni almeno uno strumento, se a sette non hai già un'agenda settimanale degna di un manager junior… sei in ritardo.

Solo che a essere in ritardo, forse, è il nostro sguardo. La nostra idea di cosa sia un bambino. E di cosa gli serva davvero.

Ci sono bambini che escono da scuola e iniziano la loro "seconda giornata": inglese, coding, nuoto, danza, catechismo, psicomotricità. Non è una battuta. In alcune famiglie, il gioco libero è un lusso da ritagliare fra un impegno e l'altro. Ma se il gioco diventa un'attività da "incastrare", qualcosa si è già rotto. Non si tratta di demonizzare ogni corso o ogni attività. Ma di chiedersi: chi stiamo cercando di accontentare davvero? Il bambino? O le nostre ansie adulte?

Lo psicologo David Elkind lo diceva già nel 1981, nel libro The Hurried Child: accelerare l'infanzia per preparare prima i bambini alla vita adulta non li rende più forti. Li rende più ansiosi. Più fragili. Meno capaci di tollerare l'incertezza e la noia, due cose fondamentali per reggere il mondo reale.

"Ma così si preparano al futuro…" Questa è la scusa standard. Ma è una scusa, appunto. Lo psicologo Peter Gray, specializzato in sviluppo evolutivo, lo spiega bene: il gioco libero non è una perdita di tempo, è un'esigenza neurologica. I bambini che giocano da soli, con altri, con la natura, stanno sviluppando tutte le funzioni cognitive, emotive e sociali che serviranno da adulti: regolazione emotiva, creatività, capacità di negoziare, prendere decisioni, adattarsi.

Togliergli il gioco per "fargli fare inglese" non li prepara al futuro. Li prepara a fallire quando il futuro non sarà strutturato per loro. E guarda caso, i paesi con i migliori risultati scolastici sono proprio quelli dove l'istruzione formale parte più tardi, e dove si gioca di più. In Finlandia, la scuola comincia a sette anni. E nessuno si scandalizza. Nessuno ti chiede: "Ma a quattro anni tuo figlio non fa il laboratorio di mandarino?"

Secondo i dati dell'OMS e dell'American Psychological Association (2021–2024), i disturbi d'ansia nei bambini tra 6 e 12 anni sono in aumento costante nei paesi occidentali. Le cause? Tante. Ma tra queste ci sono: 

  • carico scolastico eccessivo;
  • aspettative genitoriali altissime;
  • scarsa possibilità di esprimersi liberamente;
  • perdita di tempo non finalizzato.

Jean Twenge, nel suo libro iGen, lo mette nero su bianco: abbiamo cresciuto una generazione performante ma fragile. Bravissimi nei test, incapaci di reggere il fallimento. Brillanti online, impacciati offline. E il paradosso è che lo abbiamo fatto per "dar loro un futuro".

Un bambino felice o un bambino competitivo? Un figlio che sa ascoltarsi o un figlio che ci faccia fare bella figura? Perché spesso, diciamolo, le aspettative non sono nemmeno dei bambini. Sono nostre. Sono di genitori che temono di "fare troppo poco", o che si confrontano con altri genitori, o che proiettano nel figlio tutto quello che non sono riusciti a diventare. E allora la danza, il violino, il terzo idioma servono più a noi che a loro. Solo che un bambino non è un canvas da riempire. È un essere in divenire. E se lo riempi di troppi colori, alla fine grigio diventa.

Questa idea di "bambino strategico" non nasce dal nulla. È figlia della cultura dell'ottimizzazione, della prestazione, del controllo. Del neoliberismo introiettato fino al midollo, per cui ogni secondo deve produrre valore. E se non produce, è sprecato. Ma un bambino non produce. Un bambino esplora, sbaglia, ride, piange, si annoia. E proprio questo lo forma.

Se noi adulti non riusciamo più a concepire il tempo improduttivo, la colpa non è dei bambini. È nostra. E forse, nel volerli "preparare alla vita", stiamo solo cercando di redimere noi stessi. Di dare un senso a una vita che abbiamo riempito di doveri, sacrificando la gioia, l'imprevisto, il gioco.

Joël Dicker ha detto: "Sei un bambino. Devi goderti la vita e fare le cose che ti rendono felice". Non è una frase tenera. È una frase radicale. Perché oggi, un bambino felice è quasi una forma di dissidenza. E un genitore che lo lascia essere, senza anticipare ogni traguardo, è quasi un sovversivo.

E se ci dessimo il permesso, ogni tanto, di ascoltare questa frase anche da adulti? "Sei un essere umano. Non devi performare. Devi anche goderti la vita."


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Al Salone del Libro di Torino 2025, lo scrittore Joël Dicker ha detto una frase semplice, quasi ovvia:"Sei un bambino. Devi goderti la vita e fare le cose che ti rendono felice".