l’infanzia sotto pressione
Al Salone del Libro di Torino 2025, lo scrittore Joël Dicker ha detto una frase semplice, quasi ovvia:"Sei un bambino. Devi goderti la vita e fare le cose che ti rendono felice".
di Nicola Accordino
Al Salone del Libro di Torino 2025, lo scrittore Joël Dicker ha detto una frase semplice, quasi ovvia:"Sei un bambino. Devi goderti la vita e fare le cose che ti rendono felice".
Sembrava una carezza. Ma era un pugno. Perché oggi, dire una cosa del genere non è buon senso. È un atto di resistenza.
Viviamo in un mondo dove l'infanzia è diventata un investimento a rendimento rapido. Un progetto da gestire. Un potenziale da massimizzare. Se a cinque anni non sai due lingue, se a sei non suoni almeno uno strumento, se a sette non hai già un'agenda settimanale degna di un manager junior… sei in ritardo.
Solo che a essere in ritardo, forse, è il nostro sguardo. La nostra idea di cosa sia un bambino. E di cosa gli serva davvero.
Ci sono bambini che escono da scuola e iniziano la loro "seconda giornata": inglese, coding, nuoto, danza, catechismo, psicomotricità. Non è una battuta. In alcune famiglie, il gioco libero è un lusso da ritagliare fra un impegno e l'altro. Ma se il gioco diventa un'attività da "incastrare", qualcosa si è già rotto. Non si tratta di demonizzare ogni corso o ogni attività. Ma di chiedersi: chi stiamo cercando di accontentare davvero? Il bambino? O le nostre ansie adulte?
Lo psicologo David Elkind lo diceva già nel 1981, nel libro The Hurried Child: accelerare l'infanzia per preparare prima i bambini alla vita adulta non li rende più forti. Li rende più ansiosi. Più fragili. Meno capaci di tollerare l'incertezza e la noia, due cose fondamentali per reggere il mondo reale.
"Ma così si preparano al futuro…" Questa è la scusa standard. Ma è una scusa, appunto. Lo psicologo Peter Gray, specializzato in sviluppo evolutivo, lo spiega bene: il gioco libero non è una perdita di tempo, è un'esigenza neurologica. I bambini che giocano da soli, con altri, con la natura, stanno sviluppando tutte le funzioni cognitive, emotive e sociali che serviranno da adulti: regolazione emotiva, creatività, capacità di negoziare, prendere decisioni, adattarsi.
Togliergli il gioco per "fargli fare inglese" non li prepara al futuro. Li prepara a fallire quando il futuro non sarà strutturato per loro. E guarda caso, i paesi con i migliori risultati scolastici sono proprio quelli dove l'istruzione formale parte più tardi, e dove si gioca di più. In Finlandia, la scuola comincia a sette anni. E nessuno si scandalizza. Nessuno ti chiede: "Ma a quattro anni tuo figlio non fa il laboratorio di mandarino?"
Secondo i dati dell'OMS e dell'American Psychological Association (2021–2024), i disturbi d'ansia nei bambini tra 6 e 12 anni sono in aumento costante nei paesi occidentali. Le cause? Tante. Ma tra queste ci sono:
Jean Twenge, nel suo libro iGen, lo mette nero su bianco: abbiamo cresciuto una generazione performante ma fragile. Bravissimi nei test, incapaci di reggere il fallimento. Brillanti online, impacciati offline. E il paradosso è che lo abbiamo fatto per "dar loro un futuro".
Un bambino felice o un bambino competitivo? Un figlio che sa ascoltarsi o un figlio che ci faccia fare bella figura? Perché spesso, diciamolo, le aspettative non sono nemmeno dei bambini. Sono nostre. Sono di genitori che temono di "fare troppo poco", o che si confrontano con altri genitori, o che proiettano nel figlio tutto quello che non sono riusciti a diventare. E allora la danza, il violino, il terzo idioma servono più a noi che a loro. Solo che un bambino non è un canvas da riempire. È un essere in divenire. E se lo riempi di troppi colori, alla fine grigio diventa.
Questa idea di "bambino strategico" non nasce dal nulla. È figlia della cultura dell'ottimizzazione, della prestazione, del controllo. Del neoliberismo introiettato fino al midollo, per cui ogni secondo deve produrre valore. E se non produce, è sprecato. Ma un bambino non produce. Un bambino esplora, sbaglia, ride, piange, si annoia. E proprio questo lo forma.
Se noi adulti non riusciamo più a concepire il tempo improduttivo, la colpa non è dei bambini. È nostra. E forse, nel volerli "preparare alla vita", stiamo solo cercando di redimere noi stessi. Di dare un senso a una vita che abbiamo riempito di doveri, sacrificando la gioia, l'imprevisto, il gioco.
Joël Dicker ha detto: "Sei un bambino. Devi goderti la vita e fare le cose che ti rendono felice". Non è una frase tenera. È una frase radicale. Perché oggi, un bambino felice è quasi una forma di dissidenza. E un genitore che lo lascia essere, senza anticipare ogni traguardo, è quasi un sovversivo.
E se ci dessimo il permesso, ogni tanto, di ascoltare questa frase anche da adulti? "Sei un essere umano. Non devi performare. Devi anche goderti la vita."
Al Salone del Libro di Torino 2025, lo scrittore Joël Dicker ha detto una frase semplice, quasi ovvia:"Sei un bambino. Devi goderti la vita e fare le cose che ti rendono felice".
C'è una frase che ritorna sempre più spesso, come l'alito del passato in un locale senza finestre: "Una volta gli imprenditori avevano la terza elementare e costruivano l'Italia. Oggi i laureati distruggono tutto."