Il libro che mi graffiò a 14 anni

05.07.2025

di Nicola Accordino

C'erano libri che leggevamo a scuola e che non ci lasciavano niente. Poi c'erano quelli che ci lasciavano un segno. Non un ricordo, un segno.
Un graffio.

Io il mio l'ho ricevuto in seconda media. Avevo 14 anni, e la prof di italiano ci fece leggere un libro sottile, dalla copertina sobria, pubblicato da una piccola casa editrice: La promessa di Hamadi, di Moussa Ba.

Non era un romanzo d'avventura. Non era un diario. Non era nemmeno un libro pensato per "intrattenere". Era una storia semplice, ruvida, nuda. Una di quelle che non ti proteggono. Che ti mettono davanti alla realtà senza la rete di sicurezza.

E la realtà era questa: c'erano uomini che lasciavano la loro terra, il loro villaggio, le loro famiglie. Attraversavano il deserto, a piedi. Senza sapere se sarebbero sopravvissuti. Arrivavano in Italia, e invece del sogno trovavano il fango. Le baracche. Lo sfruttamento. I turni massacranti nei campi. Il razzismo silenzioso e quotidiano, quello che non si urla ma si respira. E nonostante tutto, restavano. Perché indietro non si poteva tornare. Perché da qualche parte, qualcuno contava su di loro.

Ma il punto è che La promessa di Hamadi raccontava tutto questo non con rabbia, non con retorica, non con pietismo. Lo raccontava da dentro.

Era una storia scritta da chi aveva vissuto sulla propria pelle quella traversata. Moussa Ba veniva dal Senegal. Era uno di quelli che ce l'aveva fatta, ma non nel senso trionfale del termine. Ce l'aveva fatta nel senso che era sopravvissuto. E che aveva deciso di raccontare.

C'è una scena nel libro che non ho mai dimenticato. È passata più di metà della mia vita, eppure ce l'ho ancora in testa. Me la porto dietro come un piccolo tatuaggio invisibile. È la scena in cui il protagonista, fratello di Hamadi, trova il suo nome inciso su una parete di legno, in una capanna dove i migranti dormivano, ammucchiati, sfruttati, dimenticati. Il nome inciso: Hamadi. Un gesto piccolo, quasi infantile. Eppure carico di senso. Un nome inciso non per vanità, ma per lasciare traccia. Per dire: sono stato qui. Per non sparire.

E poi la scoperta: Hamadi non era scomparso. Non era solo un altro bracciante perduto nel silenzio. Era diventato un sindacalista, uno che aveva deciso di organizzare i suoi compagni. Di lottare per i diritti. Di non accettare più in silenzio. Hamadi non era un eroe. Era uno che aveva scelto di non arrendersi. 

E io, a 14 anni, leggevo questa scena e sentivo qualcosa dentro spezzarsi. Perché capivo — pur senza saperlo dire — che c'era un mondo intero di cui non sapevo nulla. E che quel mondo non era lontano. Era dietro l'angolo. Era davanti alla stazione. Era quello dei "vu cumprà" che vedevo ogni giorno, e che avevo imparato a ignorare.

Poi successe una cosa. Finito il libro, la prof ci disse: "Lunedì prossimo verranno tre ragazzi a parlarci della loro esperienza." Arrivarono. Venivano da Dakar. Avevano trent'anni o poco più. Indossavano abiti tradizionali: lunghi, coloratissimi, eleganti. Ma non era quello a colpirmi. Parlavano un italiano perfetto. Poi francese. Poi inglese. E parlavano con dignità. Con intelligenza. Con ironia. E io lì, con la mia ignoranza da adolescente italiano medio, con la mia idea preconfezionata del nero venditore di accendini, del migrante "povero e ignorante", mi sentii piccolo. 

Mi crollò un mondo addosso. Quei ragazzi — laureati, poliglotti, colti — erano la dimostrazione vivente che tutto quello che avevo pensato fino ad allora era sbagliato. E che la mia visione del mondo, che credevo neutra, era in realtà già contaminata.

Da chi? Dalla televisione. Dalle battute degli adulti. Dalle vignette razziste che giravano in classe. Dai silenzi. Dai sorrisi complici. Dalle frasi sussurrate per non farsi sentire: "Eh, però 'sti immigrati..." Ecco. La promessa di Hamadi ha rotto quel silenzio. Lo ha spaccato. Mi ha costretto a vedere.

Ci penso spesso, oggi, a distanza di trent'anni. Penso a quei ragazzi senegalesi. A quel libro sparito da tutte le librerie. A Moussa Ba, che oggi in pochi conoscono, ma che a suo modo ha fatto più educazione civica lui di mille programmi ministeriali. 

E poi penso all'altro libro. Quello scritto da un certo generale, europarlamentare, che racconta di quando da bambino si sporse per toccare la pelle di un uomo nero e restò colpito dalla sua consistenza. Sì. Un europarlamentare che pubblica un libro del genere, e c'è gente che lo compra, lo legge, lo applaude.

E intanto i ragazzi come quelli che vennero nella mia classe, quelli che parlavano quattro lingue e avevano studiato più di me, magari oggi raccolgono pomodori in Calabria o vengono respinti a Lampedusa. E allora capisci che La promessa di Hamadi non era un libro di narrativa per ragazzi. Era un libro politico. Un atto di resistenza. Una testimonianza. Un modo per dire: esistiamo. Abbiamo un nome, una storia, una dignità.

Ecco perché quel graffio mi è rimasto. Perché era il primo segno concreto che la letteratura poteva fare qualcosa. Non tutto. Ma qualcosa sì. Che poteva aprirti una crepa. Metterti in crisi. E in quella crisi — se avevi fortuna, se avevi una professoressa che ti ci accompagnava — poteva nascere una coscienza.

Io, a 14 anni, non lo sapevo. Ma stavo imparando che l'uguaglianza non è un concetto astratto. È qualcosa che ti si pianta dentro quando ti accorgi che la pelle cambia colore, ma il cuore, la mente, il dolore e la speranza no. Sono uguali. Uguali e bastano.


Iscriviti alla newsletter

* indica requisiti obbligatori

Intuit Mailchimp

Immagina un ragazzo, Marcello, che a 18 anni dice: "Non voglio un voto, voglio solo essere guardato". Non è una frase di circostanza, ma un urlo di richiesta di riconoscimento. Perché succede che un sistema educativo nato per formare persone riduca i giovani a numeri e schede di valutazione? La psicologia di comunità ci aiuta a capire come...

C'è un dettaglio che dovrebbe farci riflettere, ma che ormai passa quasi inosservato. Ogni volta che Trump alza la voce contro un paese — Iran, Cina, Messico, non importa — qualcuno corre a vedere l'andamento della borsa, il valore delle crypto, i movimenti di certi titoli legati all'energia o alla sicurezza. Non perché tema una guerra. Ma perché...