Le identità deboli temono il mondo

19.07.2025

di Nicola Accordino

Quando si parla di comunità glocale, non stiamo solo accostando due parole, "globale" e "locale", come se fossero due tessere di un puzzle messe lì a caso. Dietro questo concetto c'è una filosofia che affonda le radici in un'idea antica, quasi ancestrale: ogni comunità, ogni cultura, ogni identità nasce e si nutre del luogo in cui è radicata. Ma oggi, in un mondo che corre più veloce del nostro respiro, queste radici non sono più confinate a un singolo punto sulla mappa. Sono illuminate e alimentate da una rete globale che si intreccia con la vita di ciascuno, modificandola senza cancellarla.

Prendi la festa di San Teodoro a Sorrentini, un piccolo borgo della provincia di Messina, nel comune di Patti. Ogni seconda domenica di agosto, quella festa si accende di luci, voci, colori e profumi. È una tradizione che attraversa secoli, fatta di riti e momenti di condivisione, ma non è solo un evento locale. Oggi, grazie ai video condivisi su YouTube e sui social, questa festa vive anche fuori dai confini del paese. Ci sono persone nate a Sorrentini ma sparse in tutto il mondo — come me, che da bambino la seguivo da vicino, e che ora la porto con me come un tesoro prezioso da raccontare agli amici in Germania o a Roma. Non solo la racconto, ma la sostengo anche, mandando qualche contributo per mantenere viva la tradizione, anche se sono lontano.

Ecco, questa è la comunità glocale in azione: una tradizione locale che si espande in una dimensione globale, mantenendo però la sua essenza autentica. Non si tratta di un'estraniazione o di un'omologazione a un modello globale indistinto, ma di un dialogo vivo tra ciò che siamo nel profondo e ciò che possiamo diventare aprendoci al mondo.

Filosoficamente, questa idea richiama la dialettica tra identità e alterità, radici e orizzonti. Pensatori come Martin Heidegger hanno sottolineato quanto il "luogo" sia parte essenziale dell'essere, mentre oggi, filosofi della globalizzazione come Ulrich Beck parlano di "rischi globali" che impongono una nuova consapevolezza comunitaria. La comunità glocale si pone proprio come risposta a questa sfida: riconoscere e coltivare la propria identità senza rinchiudersi in una gabbia, ma interagendo attivamente con il mondo.

La sociologia di comunità ci spiega che le relazioni sociali si modificano e si allargano, ma non per questo diventano meno profonde. Le reti digitali creano un nuovo tessuto sociale dove la vicinanza fisica non è più l'unico fattore di appartenenza. Ecco che allora i "migranti digitali" — come molti degli abitanti di Sorrentini sparsi nel mondo — possono partecipare attivamente alla vita della loro comunità d'origine, rafforzandola invece di lasciarla andare a pezzi. È un fenomeno che rompe la tradizionale idea di "comunità" come mera prossimità spaziale, per trasformarla in un concetto dinamico e multifocale.

Dall'altra parte, la psicologia di comunità ci invita a guardare a questo intreccio come a un'opportunità di crescita collettiva. Aiuta le persone a costruire un senso di appartenenza che non si limita a una singola dimensione, ma include la consapevolezza di far parte di un sistema complesso, dove il locale e il globale si influenzano a vicenda. Questa consapevolezza è fondamentale soprattutto oggi, perché le sfide che ci aspettano – dalle pandemie ai cambiamenti climatici – sono per forza di cose glocali. Non possiamo più affrontarle come singole isole, ma solo come una rete di comunità interconnesse.

E qui entra in gioco anche il tema della globalizzazione capitalista, che spesso si confonde con il semplice concetto di interconnessione globale. Il sistema capitalista tende a schiacciare le differenze, omologare i gusti e standardizzare i comportamenti, riducendo le comunità a meri consumatori conformisti. Questo modello non è la globalizzazione di cui abbiamo bisogno, anzi, rischia di essere il veleno che intossica le relazioni sociali e il senso di sé.

La comunità glocale, al contrario, è un atto di resistenza contro questo annientamento. È il modo per ribadire che le identità non sono merci da mettere in vetrina o da svendere, ma patrimoni da coltivare con cura, dentro e fuori dai propri confini. È un invito a non rinunciare alle proprie radici, ma a farle crescere attraverso uno sguardo che abbraccia il mondo con consapevolezza critica.

Altri esempi celebri non mancano: pensa al Carnevale di Rio o a quello di Venezia, eventi che attirano persone da ogni angolo del pianeta, ma che sono profondamente radicati in tradizioni locali. Oppure al Carnevale di Acireale o a quello di Verzeglio, che pure con la loro dimensione più circoscritta, si sono aperti alle dinamiche globali senza perdere la loro anima. Questi eventi sono palcoscenici glocali dove si gioca la partita tra preservazione culturale e apertura al mondo.

In definitiva, la comunità glocale non è un'utopia, ma una realtà possibile e necessaria. È il filo invisibile che collega il cuore pulsante di un piccolo borgo siciliano al respiro del mondo intero. È la poesia che nasce dall'incontro tra il tempo e lo spazio, tra le radici e le ali. E soprattutto, è la sfida che ci riguarda tutti: imparare a stare dentro questo intreccio, senza paura, con rispetto e con la forza di chi sa che solo insieme possiamo costruire un futuro autentico e sostenibile.

Ed è qui, proprio alla fine di questo viaggio tra luoghi e legami, che va detta una cosa chiara, limpida come l'acqua delle fontane antiche: non è vero che aprirsi agli altri ci fa perdere la nostra identità. È una paura vecchia come il mondo, quella di confondere l'incontro con la dissoluzione. Ma la verità è che sono le identità fragili, costruite su cliché, dogmi o nostalgie imbalsamate, a sgretolarsi. Le identità vive, autentiche, non hanno paura del confronto, perché sanno che il confronto è una fucina: fa rumore, fa scintille, ma forgia.

L'identità non è una scatola chiusa, è una storia che si scrive nel dialogo. E come ogni buona storia, si arricchisce di svolte, di personaggi, di intrecci. Quando ci confrontiamo con l'altro, non ci perdiamo: ci riconosciamo. A volte serve uno specchio diverso per capire chi siamo davvero. E se quel confronto ci destabilizza, allora è segno che avevamo bisogno di rimettere mano al nostro racconto.

In un mondo che ci vuole tutti uguali per venderci le stesse cose, resistere vuol dire anche portare con fierezza la propria specificità nel cuore della piazza globale, raccontare la propria festa di paese a chi non ha mai sentito parlare di San Teodoro, ballare la tarantella anche sotto la neve tedesca, parlare dialetto nei silenzi di Berlino. Perché chi sa da dove viene, non ha paura di dove sta andando. E forse, solo chi sa raccontarsi può davvero ascoltare.


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