Una volta i figli si facevano. Punto. Oggi invece bisogna crescerli. E crescerli bene. E questa differenza — tutta dentro questo slittamento tra "fare" e "crescere" — è il vero motivo per cui così tanti, oggi, non diventano genitori.
Non c'entra solo la crisi economica, anche se pesa. Non c'entra solo il costo degli affitti, la precarietà lavorativa, l'assenza di welfare, anche se contano eccome. La verità è che non è mai stato così difficile mettere al mondo un figlio proprio perché non è mai stato così chiaro cosa vuol dire davvero crescerne uno.
Una volta bastava tenerli in vita. Oggi devi renderli felici, intelligenti, equilibrati, creativi, educati, brillanti. Una volta il figlio era una necessità. Oggi è una dichiarazione d'identità. Una volta era un braccio in più. Oggi è uno specchio.
Il figlio non è più parte di un sistema collettivo — famiglia allargata, quartiere, comunità — ma è diventato una startup esistenziale, un KPI affettivo, un brand personale da costruire con cura. E se tuo figlio è fragile, se ha problemi, se non eccelle? La colpa è tua. Hai sbagliato. Sei un genitore fallito.
In questa società performativa, anche essere genitore è diventato performativo. E questo vale anche per i figli. Una persona che conosco, un'insegnante di musica, mi racconta spesso dei suoi piccoli allievi. Bambini di otto, nove anni, che non hanno letteralmente un momento di pausa. La loro giornata tipo è questa: scuola, ripetizioni, lezione di pianoforte, karate, palla a volo, compiti, cena, letto. E domani si ricomincia.
Non hanno più il tempo di essere bambini. Di annoiarsi, di inventare, di perdersi. Non hanno il tempo dell'ozio.
E qui si apre un punto chiave, che oggi si tende a sottovalutare o ridicolizzare: l'ozio non è il padre dei vizi. L'ozio è il padre della tolleranza al vuoto. E il vuoto, nella vita, arriva. Sempre. Arriva la noia, il lutto, la disoccupazione, l'attesa. Arrivano i momenti in cui non succede niente. E se un bambino non ha mai imparato a sopportare l'assenza di stimolo, a riempire il tempo con la propria fantasia, a tollerare l'inattività senza panico… da adulto si spaccherà. Crescerà in ansia, cercherà stimoli continui, gratificazioni immediate, app che lo distraggano, relazioni che lo anestetizzino. Sarà iperattivo dentro e depresso fuori. E si sentirà sempre in colpa, anche quando non ha niente da rimproverarsi.
Molti genitori riempiono l'agenda dei figli per paura. Paura del fallimento, dell'esclusione, del "non abbastanza". Ma dietro questa iperattività infantile c'è spesso il tentativo dei genitori di curare le proprie ansie attraverso i figli, invece di affrontarle. Il figlio come estensione dell'ego. Come vetrina della propria competenza. Come trofeo educativo. Ma questo è un disastro.
Perché i bambini non sono strumenti. E non sono specchi. Sono esseri in formazione, con un bisogno fondamentale che la psicologia ci ha spiegato bene da decenni: essere visti, amati e lasciati liberi di esplorare il mondo con i propri tempi.
Negli anni Ottanta, studiosi come Piaget, Winnicott, Bowlby — e oggi decine di ricerche più recenti — hanno dimostrato che la qualità del contesto affettivo e relazionale in cui un bambino cresce è decisiva. Non basta amarli. Serve sapere come amarli. Serve sapere che: l'ipercontrollo è dannoso, la stimolazione eccessiva è una forma di ansia trasmessa, l'assenza di tempo libero è una deprivazione emotiva.
E allora torniamo alla questione iniziale.
Non è vero che i giovani non fanno figli perché sono egoisti. Molti non li fanno perché sono troppo lucidi su cosa comporta farne. Perché hanno capito che crescere un figlio non significa solo dargli da mangiare. Significa offrirgli uno spazio interno in cui fiorire. E oggi, molti di noi non hanno nemmeno quello spazio per sé.
Il risultato è paradossale: chi sarebbe più adatto a fare figli — sensibile, riflessivo, attento — spesso si trattiene. Mentre chi li fa con leggerezza, con incoscienza, con superficialità… li fa. E questo non sempre finisce bene.
Non voglio dire che non si debbano avere tanti figli. Si possono avere, certo. Ma bisogna anche poterli crescere davvero. E per farlo, oggi, non servono solo soldi — anche se aiutano. Servono tempo, cultura, consapevolezza. E un contesto che non ti lasci solo. Perché da soli, oggi, non basta più nemmeno l'amore.
Crescere un figlio oggi è un atto politico, culturale, psicologico. Non è più solo un fatto privato. E non è nemmeno un dovere verso la patria, come ogni tanto ci vogliono far credere. È un impegno profondo, che riguarda non solo il figlio ma anche il genitore che si decide di diventare. Ed è giusto che chi ci pensa davvero, chi si ferma prima di fare il salto, non venga accusato di egoismo. Ma magari di responsabilità.
E forse è anche per questo che, oggi, in tanti si fermano. Non perché non sanno cosa significa fare un figlio. Ma perché, per la prima volta, lo sanno benissimo.