Enshittification: la lenta marcescenza delle piattaforme digitali

18.06.2025

di Nicola Accordino

C'è stato un momento – breve, ma abbagliante – in cui Internet sembrava il futuro che sognavamo. Un luogo aperto, leggero, collaborativo. Amazon ci permetteva di trovare libri introvabili in pochi clic. Facebook ci restituiva amicizie perdute. YouTube sembrava una videoteca anarchica dove tutti potevano parlare, cantare, esprimersi. Persino Google appariva quasi neutrale, una bussola al servizio della conoscenza.

Poi qualcosa è cambiato. Non tutto in una volta. È successo in silenzio, per piccoli aggiustamenti, come quando una stanza familiare inizia a puzzare di muffa ma non riesci a capire esattamente da dove venga l'odore. È iniziato così il processo che oggi molti, con un certo disincanto, chiamano enshittification. Il nome l'ha coniato Cory Doctorow – scrittore, giornalista, attivista – ed è tanto volgare quanto preciso. In italiano si potrebbe tradurre con "merdificazione", ma suona più goffo che potente. Meglio lasciare il termine originale, che già nella sua brutalità racconta tutto.

La dinamica è semplice, ma devastante: una piattaforma digitale nasce per attrarre utenti, e quindi li tratta bene. L'algoritmo lavora per far trovare ciò che cercano, i contenuti sono interessanti, i servizi rapidi, la pubblicità quasi invisibile. Poi, una volta conquistata una massa critica, la piattaforma comincia a spingere i contenuti più redditizi, non quelli più utili. L'algoritmo si trasforma in uno strumento di manipolazione, e l'esperienza utente diventa meno soddisfacente. Infine, quando anche i produttori di contenuti o i venditori iniziano a essere spremuti con commissioni alte, regole opache e concorrenza sleale, è chiaro che la piattaforma sta ormai lavorando solo per sé stessa. A quel punto, nessuno è più felice, ma nessuno se ne va. Perché tutti gli altri sono ancora lì dentro.

Non si tratta di un errore o di una deviazione sfortunata. È un modello. Anzi, è il modello. Le piattaforme funzionano come trappole per topi: all'inizio ti danno formaggio gratis, poi ti stringono la morsa quando sei troppo coinvolto per scappare. Il fatto è che queste trappole non usano il ferro, ma la psicologia. Sfruttano le nostre abitudini, il bisogno di appartenenza, la paura di perdere qualcosa. Costruiscono ambienti in cui torniamo ogni giorno per inerzia, non per desiderio.

Doctorow non parla solo da teorico. Porta esempi precisi: TikTok che mostra contenuti virali artefatti anziché spontanei; Amazon che favorisce marchi propri a scapito di venditori indipendenti; Google che riempie la prima pagina di risultati con pubblicità e fuffa SEO, nascondendo la vera informazione a fondo pagina. Ma il punto non è una lista della spesa. Il punto è che il ciclo si ripete ovunque: prima ti seducono, poi ti spremono, poi ti incatenano.

È facile pensare che questa sia la naturale evoluzione del capitalismo digitale. Ma la verità è che il meccanismo dell'enshittification è più antico della Silicon Valley. Già in epoca romana, le colonie ricevevano privilegi iniziali per attirare popolazione e fedeltà, salvo poi diventare fonti di tributi e soldati. Anche nel Medioevo, il signore feudale prometteva protezione e stabilità, ma col tempo stringeva il controllo fino a legare i contadini alla terra. E nelle religioni istituzionalizzate, l'accesso al sacro era inizialmente gratuito e comunitario, poi regolato da caste sacerdotali, riti obbligatori e obbedienza.

Insomma, ogni sistema centralizzato tende, prima o poi, a girare su sé stesso. Non per cattiveria, ma per logica interna. Il potere si conserva meglio quando si concentra, e la promessa di un bene condiviso cede il passo alla gestione esclusiva. Le piattaforme digitali non hanno inventato nulla. Hanno solo accelerato e ottimizzato questo processo, con strumenti nuovi e più sottili.

La cosa più insidiosa è che ci accorgiamo di questo decadimento solo quando è troppo tardi. Una piattaforma enshittificata non puzza subito. Ma se torni indietro e confronti l'esperienza attuale con quella di dieci anni fa, la differenza è lampante: meno libertà, meno controllo, meno piacere. Più pubblicità, più contenuti tossici, più sensazione di vuoto.

Eppure continuiamo a restare. Perché la rete funziona in base a ciò che fanno gli altri, e uscire da una piattaforma dominante significa spesso rinunciare a una parte di vita sociale, professionale o informativa. È come abitare in una città inquinata: sai che fa male, ma tutte le strade portano lì.

L'alternativa esiste, ma non è comoda. Richiede di disimparare alcune abitudini. Di uscire dal loop dell'intrattenimento immediato, del like automatico, della scrollata serale. Richiede di cercare, invece di farsi trovare. Di scegliere strumenti più piccoli, più lenti, ma più onesti. Ci sono comunità che stanno costruendo social alternativi, decentralizzati, senza algoritmi oscuri e senza pubblicità—come Mastodon, come Lemmy, come Pixelfed. Ci sono newsletter indipendenti che arrivano direttamente nella tua casella, senza passare dal filtro invisibile di una piattaforma. Ci sono progetti come Signal, che mettono la privacy prima del profitto. Ma nulla di tutto questo funziona se lo usi da solo.

E allora la domanda non è "quale piattaforma usare?", ma: con chi voglio stare? Con chi voglio condividere tempo, attenzione, linguaggio? Perché uscire dall'enshittification non è solo un gesto tecnico: è una questione di relazioni. Serve una comunità. Anche piccola. Anche imperfetta. Ma serve.

Alla fine, l'enshittification ci mette davanti a un paradosso: abbiamo più accesso che mai, ma meno controllo che mai. Siamo sempre connessi, ma sempre più isolati. Se non possiamo cambiare l'intero sistema, possiamo almeno cominciare a sottrarci. A scegliere meno, ma meglio. A disertare, quando serve. A ricordarci che essere online non è la stessa cosa che vivere connessi.

E se ci chiedono perché ce ne andiamo, potremo sempre rispondere con un sorriso: "Perché qui dentro ormai puzza troppo. E l'aria buona, ogni tanto, va cercata a piedi."


Iscriviti alla newsletter

* indica requisiti obbligatori

Intuit Mailchimp

Esiste una frase che riassume con chirurgica precisione il funzionamento delle norme sociali nei contesti di potere: se sei povero è peccato, se sei potente è stile. In questo articolo esploriamo come le norme – quelle che, teoricamente, dovrebbero servire a tenere insieme un gruppo e guidarlo verso obiettivi comuni – siano spesso usate per...

C'è stato un momento – breve, ma abbagliante – in cui Internet sembrava il futuro che sognavamo. Un luogo aperto, leggero, collaborativo. Amazon ci permetteva di trovare libri introvabili in pochi clic. Facebook ci restituiva amicizie perdute. YouTube sembrava una videoteca anarchica dove tutti potevano parlare, cantare, esprimersi. Persino Google...