Mio padre cambiava canale quando c'erano scene di sesso nei film. Lo faceva con la prontezza di un artificiere: un colpo di telecomando e via, come se bastasse un tasto per disinnescare la vergogna. Mia madre, invece, aveva un talento raro: riusciva a farti sentire colpevole anche per la curiosità. Una volta mi trovò che giocavo al dottore con un altro bambino e mi rimproverò come se avessi violato un segreto di Stato. Nessuno dei due pensava di farmi del male. Cercavano solo di proteggermi. Ma da cosa, esattamente? Dal corpo? Dal desiderio? Da me stesso?
A scuola nessuno ne parlava. L'educazione sessuale era un fantasma: si parlava di cellule, apparati, mitosi e meiosi, ma l'idea che quei corpi potessero volere qualcosa era proibita. Gli insegnanti si fermavano un passo prima di pronunciare le parole "piacere", "desiderio", "consenso". Tutto restava sospeso in un imbarazzo che sapeva di gesso e di silenzio.
Così ho imparato da solo. O meglio: mi ha educato internet. Pornhub è stato il mio primo manuale. Lì ho imparato cosa si fa, ma non cosa si sente. Ho imparato la meccanica, non la tenerezza. L'anatomia, non la reciprocità.
E non sono stato l'unico. Siamo una generazione che ha imparato la sessualità come si impara a guidare guardando i video dei rally: tanta accelerazione, zero controllo. Poi arrivano le prime relazioni vere, e lì capisci che non funziona. Che la realtà non ha la regia, né la musica, né l'egoismo perfetto del porno.
L'educazione sessuale non serve per insegnare "come si fa", ma "come si sta". Come si chiede, come si dice no, come si ascolta, come si rispetta. È igiene emotiva, non pornografia travestita da morale.
E se ci avessero insegnato questo, forse avremmo imparato ad amare prima, e a fingere meno.
Ora tocca a noi insegnarla, l'educazione sessuale e sentimentale. Ai nostri figli, ai nostri studenti, ai ragazzi che crescono in un mondo dove il sesso è ovunque tranne che nei programmi scolastici. Ma a noi chi l'ha insegnata? Nessuno, e si vede.
Siamo cresciuti in un Paese che ha tolto il delitto d'onore solo nel 1981 — e non nel Medioevo, ma quando già uscivano i primi videogiochi. Fino ad allora, se un uomo uccideva la moglie "perché lo aveva disonorato", la legge prevedeva una pena attenuata. Cioè: la cultura del possesso era scritta nel codice penale.
E fino al 1986, lo stupro non era nemmeno considerato un reato contro la persona, ma contro la moralità pubblica. Tradotto: non si puniva la violenza subita da una donna, ma l'offesa arrecata al "decoro" della comunità. Era la vergogna sociale, non il trauma individuale, a pesare.
Come poteva, in un contesto così, esistere una vera educazione sentimentale? I nostri genitori avevano paura di nominare il sesso perché per secoli era stato nascosto dietro l'idea di pudore, onore, decenza. Erano categorie nate per controllare i corpi, non per capirli.
Così abbiamo ereditato il silenzio. E l'abbiamo rotto male: con la pornografia, con l'ironia volgare, con la curiosità clandestina. Abbiamo imparato da schermi, non da persone. E adesso ci chiedono di spiegare ai nostri figli il consenso, il rispetto, l'affettività. Dovremmo insegnare qualcosa che noi stessi abbiamo dovuto imparare a tentoni, inciampando.
E adesso siamo qui, a dover spiegare ai nostri figli quello che nessuno ha spiegato a noi. A cercare le parole giuste per dire "corpo", "piacere", "consenso", senza sembrare maestri di yoga in crisi mistica o preti in licenza poetica.
La verità è che l'educazione sentimentale non è mai stata un argomento serio in Italia. Abbiamo sempre avuto paura di mischiare l'amore col sesso, come se la tenerezza e il desiderio si dovessero alternare, non intrecciare.
Quando si parla di educazione sessuale, molti pensano ancora a lezioni di anatomia o di prevenzione. Ma non è solo questione di preservativi e ormoni: è imparare la grammatica dell'intimità.
Capire che il corpo non è un tabù né un trofeo. Che il piacere non è una gara, e il consenso non è un contratto ma un dialogo.
Il problema è che la scuola è rimasta ferma ai tempi di quando il sesso "non si diceva". Ogni volta che si propone un corso di educazione affettiva, spunta qualcuno che urla alla "corruzione dei minori". Come se parlare di rispetto e desiderio fosse più pericoloso che lasciare i ragazzi imparare da Pornhub.
Eppure, oggi il porno è la prima maestra di molti adolescenti. Una maestra che non parla di emozioni, non mostra la cura, non insegna i limiti. È un'educazione al possesso, non all'incontro.
Così, mentre il mondo è pieno di immagini esplicite, restiamo analfabeti emotivi. Ragazzi che sanno tutto di sesso, ma quasi nulla di intimità. Uomini che scambiano la dominazione per virilità, donne che credono di doversi conformare a copioni che non le rappresentano.
E genitori che, quando si parla di educazione sessuale, abbassano lo sguardo come facevano i nostri, solo con uno smartphone in mano.
Allora forse la vera educazione sessuale dovrebbe cominciare da lì: da noi.
Dal disinnescare il senso di vergogna che abbiamo ereditato. Dal capire che parlare di sesso non corrompe, ma protegge.
Perché chi conosce se stesso è meno manipolabile, meno fragile, meno violento.
Avremmo dovuto impararlo a scuola: che il desiderio non è una colpa, che il corpo non è un'arma, che l'amore non è una proprietà privata.
E se non ce l'hanno insegnato, tocca a noi dirlo adesso.
Con la goffaggine di chi ancora arrossisce, ma anche con la lucidità di chi ha capito che il silenzio non protegge nessuno.
Io non so se riusciremo a insegnarlo bene. Ma so che vale la pena provarci.
Perché l'educazione sessuale non è una materia. È un atto d'amore civile: insegnare ai nostri figli che l'intimità non è un mistero da scoprire su uno schermo, ma un linguaggio da imparare insieme.