Ogni tanto esce una notizia che sembra scritta da un autore satirico con problemi di fiducia. Tipo quella della signora che ha finto per anni di avere una gemella, così da non dover salutare i colleghi per strada. O quell'uomo che ha finto di essere sordo per non parlare con la moglie. O la ragazza che ha inscenato una cecità...
Cecità, sordità e altre strategie di sopravvivenza
di Nicola Accordino

Ogni tanto esce una notizia che sembra scritta da un autore satirico con problemi di fiducia. Tipo quella della signora che ha finto per anni di avere una gemella, così da non dover salutare i colleghi per strada. O quell'uomo che ha finto di essere sordo per non parlare con la moglie. O la ragazza che ha inscenato una cecità temporanea per evitare interazioni indesiderate.
Ora, lo so cosa stai pensando: sono casi limite. Stramberie da settimana enigmistica. Eppure, se ti fermi un attimo, ci trovi dentro qualcosa che ci riguarda tutti. Una fatica relazionale diffusa. Un'umanità così esausta da preferire la messinscena patologica alla minima interazione non richiesta.
Ma non è una crociata contro il saluto, attenzione. Il saluto, in sé, è buona educazione. È uno dei pochi rituali che ci ricordano che non siamo animali solitari nella giungla urbana. Il punto non è il saluto. Il punto è la performance sociale non desiderata. La forzatura. L'obbligo di dover essere gentili, affabili, presenti con persone con cui, se potessimo scegliere, non condivideremmo nemmeno la stessa corsia del supermercato.
Quando lavoravo al bar lo dicevo spesso: ai clienti bisogna sorridere, anche a quelli stronzi. Non perché siano belli dentro, ma perché è il nostro lavoro. È un contratto. Loro entrano, noi serviamo. E in cambio, un minimo di cortesia è dovuta. Se vado in un locale e il barista non mi guarda in faccia, mi girano le scatole. Perché lì non si tratta di falsità, ma di professionalità.
Ma fuori dal lavoro? Fuori dal contratto sociale esplicito? Lì iniziano i problemi. Perché veniamo addestrati a mantenere un livello minimo di piacevolezza anche con chi ci disturba, ci umilia, ci ignora.
Quindi succede questo: la cortesia, se forzata, diventa una specie di gabbia invisibile. E da lì inizia la creatività dell'evitamento. Fingo un handicap. Mi invento una gemella. Simulo la morte interiore. Tutto pur di non dover dire "ciao" a chi non voglio più nemmeno riconoscere come umano.
Una volta, almeno, il disagio era contenuto: si viveva in piccoli gruppi, ci si conosceva tutti, e si stava zitti quando serviva. Certo, c'era la suocera che ti odiava e il vicino che ti spiava, ma erano due, tre figure fisse. Potevi metterle in conto. Oggi no.
Oggi abiti in una città di 3 milioni di persone e ne conosci 400 di vista, 150 per nome, 50 che ti seguono su Instagram, 12 che ti commentano, 7 colleghi che ti chiedono il favore, 3 ex che non vogliono sparire, 1 vicino che vuole parlarti della sua gatta con il diabete. E tu? Tu vuoi solo comprarti la verdura e tornare a casa.
E invece no. Hai firmato un contratto sociale non scritto in cui sei disponibile sempre. Anche quando non lo sei. Anzi, soprattutto quando non lo sei.
Fingere una cecità, una sordità, una personalità alternativa: sono versioni esagerate di una cosa che facciamo tutti i giorni. Non rispondiamo ai messaggi. Fingiamo di non vedere qualcuno al supermercato. Fingiamo di aver frainteso. Alziamo le cuffiette anche senza musica.
Sono strategie di sopravvivenza emotiva in un contesto che ci vuole sempre disponibili, sempre empatici, sempre sul pezzo. Ma non siamo fatti così. Non possiamo essere così. Non dobbiamo.
E allora nascono le piccole fughe. Gli atti di micro-disobbedienza relazionale. Non perché odiamo tutti, ma perché non possiamo reggere tutto.
Viviamo in una società che ci spinge a "essere noi stessi", a "mostrare la nostra autenticità", a "comunicare sempre". Ma quando questa autenticità cozza con la realtà — ovvero, che ci sono persone con cui non vogliamo parlare — allora scatta il cortocircuito.
E sai qual è la verità più triste? Che spesso non ci è permesso dire semplicemente: "non voglio parlare con te". Non sta bene. Non è civile. È scortese. Quindi dobbiamo fingere. Ma non possiamo fingere di essere infastiditi, o freddi, o in disaccordo. No. Dobbiamo fingere qualcosa di molto più estremo: una condizione medica. Una personalità fittizia. Un difetto sensoriale.
Solo se diventi "malato", "assente", "altro" puoi permetterti di non partecipare al teatro.
C'è un fondo di verità amara: il silenzio non è più accettabile. Non parlare è un'anomalia. Se sei in ascensore e non saluti, sei maleducato. Se non rispondi subito a un messaggio, sei freddo. Se non sorridi, sei problematico.
E allora ci rifugiamo nella finzione. Una bugia pietosa per restare integri, o almeno non completamente svuotati.
C'è qualcosa di profondamente stanco in queste storie. Non sono comiche, non fino in fondo. Sono il grido muto (ma pure questo deve essere giustificato) di un'umanità esausta dall'ipocrisia obbligata.
Fingere di essere ciechi per non vedere è paradossale, certo. Ma ancora più paradossale è il fatto che, per ottenere un po' di pace, quella bugia debba essere più socialmente accettata della verità.
Perché la verità è questa: non ti voglio salutare. Non ti voglio parlare. Non voglio fingere di starti simpatico. Non oggi. Forse mai.
E il fatto che questa frase, oggi, sia più scandalosa di una cecità simulata — beh, dice tutto.
Due persone sono sedute su una panchina. Entrambe sono stanche, hanno perso il lavoro da poco, e non sanno come arrivare a fine mese. Davanti a loro passa un uomo in giacca, cravatta e un Rolex d'oro. Ha appena chiuso un contratto con una cooperativa che gli fornirà manodopera a metà prezzo. Tutti migranti, tutti senza voce. Poi si volta...