Il giorno in cui mi sono diplomato, ero solo. Nessuno mi ha accompagnato. Nessuno fuori ad aspettare con fiori, palloncini o bottiglie di spumante. Ho fatto l'esame, ho firmato, ho preso il mio attestato e sono tornato a casa. Fine. Nessuna festa. Nessuna foto. Nessuna diretta Instagram. Ma non è di nostalgia che sto parlando. Non sto dicendo che fosse giusto allora, ma che oggi forse stiamo sbagliando nell'altro senso.
Oggi, fuori dalle scuole, si vedono madri e padri commossi, coriandoli dorati, bouquet da matrimonio, striscioni con il nome del figlio, bottiglie di prosecco stappate sul marciapiede. Scene da capodanno. E la domanda che mi gira in testa non è "che esagerazione" — troppo facile — ma: che cosa stiamo cercando davvero, noi quarantenni, in tutto questo spettacolo?
La psicologia usa un termine chirurgico: parenting narcissism. È quando i genitori investono talmente tanto nel percorso dei figli da perdere il confine tra "loro" e "noi". Il figlio non è più solo un individuo da accompagnare: è una parte del nostro valore pubblico. Quando si diploma, noi siamo orgogliosi. Ma orgogliosi di cosa, esattamente? Non della sua autonomia, perché quella la stiamo erodendo giorno dopo giorno.
Non della sua fatica, perché stiamo facendo di tutto per evitare che soffra.
Siamo orgogliosi di essere i genitori di quel figlio che ce l'ha fatta. Il traguardo non è più solo il suo: è nostro. E come ogni traguardo personale, vogliamo che si veda. Wendy Grolnick, studiosa del parental overinvolvement, ha dimostrato che questo tipo di genitorialità porta a figli meno autonomi, più ansiosi e più dipendenti dall'approvazione esterna. L'opposto di ciò che teoricamente vorremmo ottenere.
Le celebrazioni moderne non sono esperienze intime: sono spettacoli destinati a essere mostrati. La festa del diploma non si fa perché si sentiva il bisogno di festeggiare. Si fa perché va documentata. Le storie Instagram sono pronte ancora prima che si entri in aula. La psicologa sociale Sherry Turkle parla di "mediazione permanente dell'esperienza": tutto ciò che viviamo passa attraverso il filtro di uno schermo, con il rischio di non viverlo più davvero. Ogni emozione è mediata, ogni gesto calibrato perché qualcuno lo guardi. Stiamo allevando una generazione che associa l'importanza di un momento non a quanto lo ha sentito, ma a quante persone lo hanno visto.
La sociologa Eva Illouz ha coniato un concetto fondamentale: intimità performativa. Significa che i sentimenti, i momenti privati, vengono esibiti pubblicamente per dimostrare che esistono. La festa per il diploma, la lettera d'amore al figlio su Facebook, il reel con il sottofondo musicale emozionale. Non lo facciamo per loro. Lo facciamo per dire al mondo: "Io ci sono. Io sono un buon genitore. Io provo queste emozioni vere, e guarda quanto sono vere". Ma la verità non ha bisogno di effetti speciali. Ha bisogno di silenzio, di misura, di autenticità. Di non essere sempre dimostrata.
Il problema non è solo nostro. Il problema è che questo modo di educare crea adulti che vivono in funzione del riconoscimento esterno. Ogni sforzo deve essere notato. Ogni traguardo premiato. Ogni passo certificato da un applauso. Crescono convinti che la vita sia una serie di tappe da celebrare pubblicamente, non un percorso da affrontare anche nel silenzio, nella fatica, nella noia. E quando il mondo non applaude — perché la vita adulta non lo fa quasi mai — arrivano frustrazione, ansia, burnout, rabbia. Jean Twenge ha studiato a fondo la generazione Z e ha rilevato una correlazione tra l'aumento dell'ansia e la crescita della "convalida sociale digitalizzata". Se nessuno guarda, allora non vale. Se nessuno mette like, allora non è reale. E questo vale anche per il diploma.
Non voglio tornare all'indifferenza di mio padre che nemmeno sapeva che giorno avessi l'esame. Ma nemmeno voglio la madre con la fascia "Diplomando 2024" e il drone che filma l'uscita dalla scuola. Voglio qualcosa nel mezzo. Una presenza autentica, sobria, che dica: ci sono, sono con te, ma questo traguardo è tuo, non mio.
Il diploma è un passaggio. Un rito. Ma il rito, per avere senso, ha bisogno di misura. Di simboli, non di effetti speciali.
Oggi stiamo confondendo l'amore con lo spettacolo dell'amore. Ma i figli non hanno bisogno di genitori in vetrina. Hanno bisogno di adulti che sappiano stare anche un passo indietro, senza scomparire. Che sappiano celebrare senza occupare la scena. Che sappiano dire: "Bravo, ma ora tocca a te". E soprattutto: che sappiano farlo anche quando non c'è nessuno a guardare.a