"Nessun uomo entra mai due volte nello stesso fiume, perché il fiume non è mai lo stesso, ed egli non è lo stesso uomo". Questo frammento di Eraclito mi è arrivato come un fulmine a ciel sereno mentre ascoltavo un video di Rick Dufer. È un'immagine semplice e definitiva, che ci spinge a comprendere una cosa: tutto passa, e noi...
Funerale da incubo
di Nicola Accordino

Ho lavorato nella gastronomia da trent'anni. Ho visto cucine che puzzano di disperazione, di fumo bruciato e di rabbia repressa, locali che al mattino sembrano moribondi e la sera lottano con clienti che li giudicano prima ancora di capire cosa sia davvero un piatto. E allora arrivi tu, spettatore, e guardi Cucine da Incubo pensando: "Ah, in cinque giorni risolvono tutto". Non è così. Non lo è mai.
Il programma televisivo entra in cucina come un uragano: luci, telecamere, musica epica, lo chef simbolo della perfezione che ti osserva come se potesse leggere nell'anima. Tutto è spettacolo. Tutto è costruito. Il locale sembra rinascere, i cuochi sorridono, gli chef giovani si mostrano motivati. Il pubblico applaude davanti allo schermo. Ma io so cosa succede davvero dietro quelle telecamere: tensione, frustrazione, paura di sbagliare, risate forzate, litigi nascosti. La cucina non cambia in una settimana. La squadra non si forma in cinque giorni. I debiti, le cattive abitudini, la cattiva gestione non si eliminano con un restyling del menu o con un piatto fotografato alla perfezione.
Ogni episodio è un funerale con le luci accese. Il locale muore lentamente, e la TV gli mette la glassa lucida sopra. Per il pubblico è una rinascita. Per chi ci lavora è un'illusione che distrugge: i clienti arrivano per curiosità, giudicano ciò che vedono, e se non trovano immediata perfezione, ricadono nel giudizio negativo. "Ah, sei quello del programma…" è il marchio che ti resta addosso. Non importa quanto tu migliori dopo la puntata: la credibilità è andata.
E lo chef simbolo del format? Non importa chi sia nella realtà: diventa il "prete" del fallimento, arriva, impartisce la redenzione, se ne va. E tu resti solo, con lo staff che ha visto il successo finto, i fornitori che non cambiano, i conti che gridano disperati, e la clientela che è già tornata alla vita reale, non alla tua favola televisiva.
Ho visto locali che hanno cambiato nome, gestione, menu, arredamento. Locali che promettevano rivoluzione e dopo sei mesi erano chiusi o convertiti in formule commerciali banali. Non c'è miracolo: c'è un sistema che spettacolarizza il fallimento, lo estetizza, lo vende come intrattenimento. E ogni volta che guardi uno di quei programmi, idealizzando il cambiamento, stai cadendo nello stesso inganno: pensi che basti un tocco esterno, una parola potente, un piatto nuovo, e tutto si risolve. Non è così.
La devastazione psicologica è duplice. Per chi lavora in cucina: ti illudi, ti esponi, speri, e il giorno dopo sei più solo di prima. Per lo spettatore: credi nella favola della "redenzione in cinque giorni", mentre la realtà insegna che la cucina, la ristorazione, la gestione di un locale sono materia dura, fatta di anni, fatica, fallimenti veri, debiti veri, rapporti umani veri. Qui la TV non aiuta, qui la TV abbellisce solo il crollo.
Ho visto chef giovani abbandonare, cuochi consumati dallo stress, camerieri logorati dalla frustrazione di dover recitare una felicità che non c'è. Ho visto clienti arrivare pieni di entusiasmo e andarsene con delusione. E ho visto locali chiudere un mese, sei mesi, un anno dopo la puntata. Perché il fallimento non è solo economico: è psicologico, sociale, reputazionale.
Ecco il punto che nessuno dice: molti locali non hanno bisogno di pittura nuova, luci calde o piatti fotografabili. Ciò che serve è un restyling psicologico. Lo staff logorato deve imparare a gestire lo stress reale, non quello della telecamera. La squadra deve ricostruire fiducia reciproca, riprendere orgoglio, capire ruoli e responsabilità. I cuochi devono affrontare la paura del fallimento senza maschere, senza sorrisi obbligati davanti allo chef simbolo o davanti al pubblico. La motivazione televisiva dura quanto le luci: un giorno, forse due. Dopo, torna la realtà, pesante e crudele.
Senza intervento psicologico e strutturale, nessuna glassa lucida può salvare un locale, nessun piatto fotografabile può ricostruire una reputazione rovinata. La cucina è un microcosmo crudele: ogni decisione pesa, ogni errore ha conseguenze reali, ogni sconfitta lascia cicatrici invisibili. E la televisione entra come un uragano di luci e sorrisi, promettendo miracoli, ma lasciando dietro di sé solo una fotografia estetica del fallimento.
Il locale muore lentamente, mentre il pubblico applaude. La squadra crolla, mentre il mito del salvatore esce dalla porta sorridendo. E tu resti lì, a pulire piatti, contare soldi, sistemare fornitori, e a ricordare che tutto quello spettacolo non è reale.
Non ci sono scorciatoie. Non ci sono magie. Non ci sono chef che risolvono il mondo in cinque giorni. Ci sono solo le cucine vere, dove il lavoro dura, il sudore scende, la rabbia si accumula, e ogni decisione pesa. La TV è solo un riflettore che illumina ciò che sta già per morire.
Non chiamatelo miracolo. Non chiamatelo rinascita. Non chiamatelo Cucine da Incubo.
Chiamatelo quello che è: la fine del locale.
Ci hanno censurato l’infanzia
Immagina Shun di Andromeda: capelli verdi, armatura rosa, una catena al polso, uno sguardo che non ti aspetti. È un Cavaliere dello Zodiaco, sì, uno dei "maschi" per eccellenza nel mondo degli anime anni '80. Ma Shun è dolce, sensibile, capace di piangere senza vergogna. Un ragazzo che rompe lo stampo del macho duro. Solo che quel pezzo di mondo,...




