Quante volte l'abbiamo sentita dire? "Si nasce incendiari, si muore pompieri!". Sotto forma di battuta, come una rassegnata constatazione del tempo che passa, come se invecchiare significasse per forza diventare sordi, ciechi e muti di fronte ai sogni che un tempo ci facevano battere il cuore. Ma io una domanda ce l'ho: perché dovremmo per forza...
Se la cittadinanza fosse un premio, molti italiani la dovrebbero restituire.
di Nicola Accordino

Ogni tanto, come un temporale fuori stagione, qualcuno si sveglia e urla:
"Regalano la cittadinanza agli stranieri!"
Di solito lo fa dal balcone di Facebook, tra un insulto mal scritto e una condivisione di complotti col filtro seppia. E lo dice con lo stesso tono indignato con cui tua nonna avrebbe detto:
"Hanno messo l'ananas sulla pizza!"
Perché per l'italiano medio – quello che confonde la Costituzione con un programma TV anni '90 – la cittadinanza è una reliquia sacra. Ma solo quando si tratta di toglierla agli altri. Lui ce l'ha per diritto di placenta. Roulette Vaginale. Nato qui = cittadino. Punto.
Peccato che da lì in poi ci sia il nulla cosmico. Non una lettura della Costituzione. Non un voto espresso. Non un'ora di volontariato. Ma pretende che la cittadinanza sia un premio, mica un contratto sociale.
Ora, pare che un referendum voglia solo accorciare i tempi per richiederla, questa famigerata cittadinanza. Tempi, eh.
Non i requisiti. Quelli restano belli tosti: lingua italiana almeno livello B1, reddito dimostrabile, documenti in ordine, fedina penale linda, e una burocrazia da incubo kafkiano. Kafka, povero, oggi sarebbe un impiegato dell'anagrafe con la sindrome di Stendhal.
Eppure, il coro parte: "Così è troppo facile!"
Facile? Ma davvero?
Facile per chi vive qui da anni, lavora, paga le tasse, cresce figli che parlano italiano meglio dei tuoi nipoti, ma deve aspettare dieci anni per sentirsi uno di noi? Facile per chi fa turni di notte, firmando contratti da schiavo, mentre si prende cura dei nostri anziani, delle nostre città, delle nostre economie informali?
Facile? Ma per chi?
E lo dico anche per esperienza personale. Io stesso sto facendo ora il riconoscimento per la cittadinanza tedesca. E solo io so quante scartoffie, quanta burocrazia, quanti documenti firmati, timbrati, certificati mi stanno passando sotto gli occhi. Ho dovuto sostenere un esame di lingua tedesca, livello B1. Uno di educazione civica, come se dovessi dimostrare che non ho intenzione di sovvertire l'Impero. Dovrò pagare 250 euro per la pratica. E poi aspettare altri due anni, durante i quali mi controlleranno tutto: passato, presente e pure i sogni se possono. E in questi due anni dovrò stare attentissimo a non fare nulla di sbagliato, nemmeno una multa per attraversamento col rosso. Perché se in quel periodo la fedina si sporca, addio cittadinanza.
E sai qual è la cosa che più mi fa stringere i denti? Che anche qui, in Germania, c'è chi parla di "remigrazione" degli stranieri. Come se fossimo solo bestiame in prestito. Carne da macello sociale, da sfruttare quando serve e da buttare quando non conviene più. Come se anni di lavoro, di tasse, di contributi, di vite costruite con fatica, valessero meno del sangue giusto.
Parliamone: Se la cittadinanza è davvero così sacra, allora valga per tutti, anche per chi ce l'ha già. E facciamoci un esamino.
Prova 1: test B1 di italiano. Sai quanti lo supererebbero? Spoiler: neanche tutti i nostri parlamentari. Qualcuno pensa che il congiuntivo sia un mostro mitologico o un Pokémon leggendario. Scrivono "pò" con l'apostrofo e "qual'è" con due errori in sei lettere.
Prova 2: fedina penale pulita. Ridi, ma amaramente. Perché se bastasse questo per essere degni della cittadinanza, metà del Parlamento dovrebbe essere rispedito a casa con Flixbus.
Eppure, i più indignati se uno straniero ottiene la cittadinanza dopo anni di lavoro e sacrifici, sono gli stessi che giustificano politici corrotti, evasori con la sciarpa tricolore, ministri ridicoli e leader col curriculum da centro sociale anni '70.
E qui si apre la vera riflessione: Cosa vuol dire essere cittadini?
Essere cittadini non è avere un pezzo di carta. Non è nascere dentro un confine tracciato a matita sul mappamondo. Quello, semmai, ti rende abitante. O al massimo suddito.
Il cittadino è colui che partecipa. Che agisce. Che ha coscienza dei propri diritti e si sporca le mani coi propri doveri. Che vota, discute, si informa, costruisce, sbaglia, ma ci mette la faccia. Il cittadino è colui che sceglie di esserci.
L'abitante è solo presente. Il suddito obbedisce, brontola, ma resta ai margini. Il cittadino si prende responsabilità, anche quando fa male. Anche quando è scomodo.
Ecco perché la cittadinanza non dovrebbe essere una lotteria genetica. Dovrebbe essere una scelta reciproca. Un patto, non un bottino.
Chi oggi la vuole, non chiede un regalo. Chiede di poter far parte di un progetto collettivo. Chiede di essere riconosciuto per quello che già è: una persona che ama, lavora, vive, partecipa.
E invece trova un muro fatto di paure, slogan e ipocrisia. Perché chi ha avuto tutto gratis – la cittadinanza dentro l'uovo di Pasqua – teme chi arriva con la valigia piena di merito.
E questo governo lo sa. Ci sguazza. Divide per governare. Spaventa per tenere buio il pensiero. Premia chi urla, ostacola chi si integra. Non accoglie: scarta. E quando lo straniero si stanca, dice: "Avete visto? Non vogliono integrarsi."
La verità? La cittadinanza va meritata ogni giorno. E chi oggi ce l'ha, spesso se ne dimentica. E chi oggi la vuole, spesso l'ha già meritata mille volte. Perché non esiste nazione senza cittadini. Ma un paese pieno di sudditi travestiti da patrioti, quello sì: esiste eccome. E fa più paura di qualsiasi straniero.
E ora arrivano l'8 e 9 giugno 2025. Con i referendum. Che non parlano solo di cittadinanza. Parlano di lavoro, precarietà, sicurezza, e di cosa vogliamo diventare.
E allora no, non possiamo fare finta di niente. Non possiamo lasciare il voto in mano a chi ha nostalgia di un'Italia che non è mai esistita. A chi vede nemici dappertutto tranne che nei palazzi dove si firmano leggi per umiliarci.
È il momento di scegliere. Non per un documento. Ma per il rispetto. Per la dignità. Per tutte quelle vite che hanno aspettato troppo a lungo di essere riconosciute.
Facciamo i cittadini. Non i sudditi. Non solo abitanti, ma costruttori. Di un Paese che non si vergogna della propria umanità. Di una Repubblica che guarda avanti senza calpestare chi ha camminato troppo. Di una comunità che dice: "Tu sei qui. Tu sei con noi. Tu conti."
E se la cittadinanza è un atto d'amore, allora che non sia una messa in scena.
Che sia promessa mantenuta. Che sia abbraccio civile. Che sia futuro condiviso.
Perché alla fine, lo Stato non è un timbro. È uno sguardo. Che dice: "Sei dei nostri."
Sai qual è il problema della destra italiana e non solo? Che non ha un'idea, ha solo una posa.