Quando il Natale ti rende triste

21.12.2025

di Nicola Accordino

C'è un momento preciso, ogni anno, in cui le città europee sembrano cambiare pelle. Monaco non fa eccezione. Le luci arrivano prima del buio, i negozi si riempiono, i mercatini profumano di spezie e vino caldo. Tutto comunica una cosa sola: dovresti essere felice. O almeno dovresti sembrarlo.

Io, quest'anno, non passerò il Natale con la mia famiglia in Sicilia. Resterò qui, a Monaco. Non da solo: starò con alcuni amici che, negli anni, sono diventati famiglia nel senso più concreto del termine. Non è un Natale triste, ma è un Natale diverso. E questa differenza, anche quando è scelta o accettata, si sente. Fa rumore dentro.

Parto da qui non perché la mia situazione sia speciale, ma proprio perché non lo è. C'è chi resta in città perché lavora, chi perché vive lontano, chi perché non può viaggiare, chi perché tornare "a casa" non è più un ritorno ma una ferita. C'è chi ha perso qualcuno e chi sta combattendo con una malattia. C'è chi semplicemente non ha le forze per reggere il teatro delle feste. Tutti questi Natali esistono, ma raramente finiscono nelle storie da condividere.

Il Natale, più di altri momenti dell'anno, ha una strana abitudine: pretende felicità. Ma non solo. Il Natale giudica.

C'è una dimensione poco detta delle feste, una specie di tribunale emotivo diffuso, senza giudici ufficiali ma con moltissimi testimoni. Succede a tavola, succede nelle domande che arrivano sempre uguali, come se fossero innocue. "Allora, sei felice?" "Ti sei sistemato?" "Quest'anno va meglio, no?" Domande che non cercano davvero una risposta, ma una conferma: che tu sia allineato al clima, che tu non stia disturbando.

I silenzi diventano sospetti. Se parli poco, qualcosa non va. Se sorridi poco, sei ingrato. Se non hai voglia di raccontare, sembri scortese. E poi c'è la frase più insidiosa di tutte, detta spesso con buone intenzioni: "Ma almeno a Natale…". Come se il calendario avesse il potere di sospendere il dolore, di rimettere insieme ciò che è rotto, di rendere sconveniente ogni tristezza.

In questo tribunale nessuno viene condannato apertamente, ma tutti imparano a difendersi. Si minimizza, si cambia argomento, si indossa una versione presentabile di sé. Non per mentire, ma per sopravvivere alla pressione di dover essere nel posto giusto, con l'emozione giusta. Non la propone, la esige. Felicità rumorosa, visibile, possibilmente condivisa in gruppo. È una felicità che non tollera sfumature. O ci sei dentro, o sembri guastare l'atmosfera.

Questa pretesa non nasce dal nulla. Il Natale è carico di simboli, memorie infantili, rituali familiari, narrazioni culturali potentissime. È una festa che parla di unione, di ritorno, di calore. Il problema nasce quando questa immagine ideale viene scambiata per un obbligo emotivo. Quando ciò che "dovrebbe essere" diventa un metro con cui misuriamo ciò che siamo.

E qui iniziano le crepe. Se non sei felice, ti senti inadeguato. Se sei stanco, ti senti sbagliato. Se sei triste, ti senti fuori tempo. Come se il calendario avesse il diritto di dirti cosa provare.

Molte persone, durante le feste, sperimentano un disagio che ha anche un nome: Christmas Blues, o depressione natalizia. Non è una diagnosi clinica, ma una definizione utile per descrivere un insieme di stati emotivi comuni in questo periodo: malinconia, ansia, irritabilità, senso di solitudine, fatica mentale. Studi recenti indicano che una percentuale rilevante della popolazione riferisce un peggioramento del proprio benessere psicologico durante le festività.

Il punto importante è questo: non è un'anomalia. È una risposta.

Il Natale non crea dal nulla problemi psicologici. Li amplifica. Porta a galla ciò che durante l'anno riusciamo a tenere sotto controllo: conflitti familiari, bilanci personali, lutti non elaborati, solitudini silenziose, fragilità fisiche. Quando il mondo intorno accelera verso la gioia obbligatoria, chi è in difficoltà si sente ancora più fermo.

Dal punto di vista psicologico, il Christmas Blues è spesso legato a tre fattori principali. Il primo è l'aspettativa sociale: l'idea che questo debba essere il periodo più bello dell'anno. Il secondo è il confronto: con le famiglie altrui, con le immagini perfette, con il passato. Il terzo è la perdita di routine: orari sballati, eccessi, meno strutture quotidiane che normalmente tengono a bada l'ansia.

È importante distinguere questo stato dal Disturbo Affettivo Stagionale, noto come SAD. Il SAD è una condizione clinica legata alla riduzione della luce solare nei mesi invernali, con effetti biologici sull'umore, sul sonno e sull'energia. Ha una durata più lunga e richiede spesso un intervento specifico. Il Christmas Blues, invece, è circoscritto alle feste e tende a ridursi quando il periodo termina.

Questa distinzione non serve a minimizzare il disagio, ma a chiarire una cosa fondamentale: non siamo rotti. Non c'è qualcosa da aggiustare in noi come se fossimo un oggetto difettoso. Stiamo attraversando un periodo di difficoltà in un contesto che non ammette fragilità.

Ed è qui che spesso facciamo più danni a noi stessi. Fingere serenità costa. Moltissimo.

Dal punto di vista psicologico, non è solo una questione di stanchezza. Quando quello che proviamo e quello che mostriamo sono troppo distanti, si crea una frattura interna. Si chiama dissonanza emotiva: la sensazione di essere scollati da sé stessi. Continui a funzionare, a parlare, a partecipare, ma una parte di te resta indietro, non vista.

Questa frattura produce effetti concreti. Aumenta il senso di alienazione, come se stessi recitando in una scena che non ti appartiene. Cresce la vergogna, perché se tutti sembrano stare bene e tu no, il problema sembri tu. E più reciti, più diventa difficile fermarti, perché ammettere la fatica vorrebbe dire smontare il personaggio.

A lungo andare, questa dinamica non protegge: isola. Ti allontana dagli altri e, lentamente, anche da te stesso. Per questo accettare quello che proviamo non è un lusso emotivo, ma una necessità di salute mentale. Richiede energia emotiva, controllo, auto-censura. Significa sorridere quando dentro sei stanco, rispondere "tutto bene" quando non è vero, partecipare quando avresti bisogno di fermarti. A lungo andare, questa finzione isola più della solitudine reale.

Accettare quello che proviamo non significa arrendersi alla tristezza. Significa riconoscerla, darle un nome, smettere di combatterla come se fosse un nemico. Le emozioni negate non spariscono: si accumulano. Allo stesso tempo, accettare non vuol dire chiudersi. L'isolamento totale è una tentazione comprensibile, ma raramente è una soluzione. L'essere umano non è fatto per attraversare i momenti difficili da solo, anche se la cultura dell'autosufficienza ci ha convinti del contrario.

Qui entra in gioco una delle paure più diffuse: chiedere aiuto. Chiedere di stare insieme. Chiedere una presenza. Spesso non lo facciamo per orgoglio, ma per timore. Paura di disturbare, di essere un peso, di rovinare l'umore altrui. La verità, però, è che molte persone intorno a noi hanno la stessa paura. Non chiedono per non essere invadenti. E così tutti restano in silenzio.

Parlare rompe questo circuito.

Dire "non sto benissimo", dire "queste feste per me sono difficili", non è un fallimento sociale. È un atto di fiducia. E spesso apre uno spazio inatteso: scopri che anche l'altro stava facendo finta. Che anche l'altro si sentiva fuori posto. Cercare serenità non significa imporsi la positività. Significa guardarsi intorno con onestà. Se abbiamo qualcuno con cui stare, anche se non è la famiglia di origine, è qualcosa. Se abbiamo un luogo sicuro, una tavola condivisa, una conversazione sincera, è già molto. Non è poco solo perché non assomiglia all'immagine perfetta.

E se invece siamo soli, davvero soli, questo non ci rende meno degni. In quel caso, chiedere diventa ancora più importante. Chiedere a un amico, a un vicino, a un collega. Chiedere a un professionista se il peso è troppo. Non per medicalizzare la tristezza, ma per non affrontarla in silenzio. C'è anche un'altra responsabilità, spesso ignorata: quella verso gli altri. Se conosciamo qualcuno che sappiamo resterà solo, o che sta attraversando un momento difficile, possiamo fare qualcosa. Non grandi gesti. Una telefonata, un invito, un messaggio. Sì, magari "rovina" un po' l'idea di Natale perfetto. Ma forse è proprio questo il punto.

Il Natale non dovrebbe essere una vetrina di felicità, ma un esercizio di umanità. Potrebbe essere, nel suo piccolo, un laboratorio sociale minimo. Un tempo in cui abbassiamo le aspettative di performance e alziamo quelle di presenza. Meno domande che interrogano, più silenzi che accolgono. Meno obbligo di stare bene, più disponibilità a stare insieme, anche storti. Questo vale per chi soffre, ma anche per chi si sente relativamente al sicuro. Restare vicino a chi è in difficoltà non significa farsi carico di tutto, né trasformarsi in salvatori. Significa condividere tempo, normalità, attenzione. Una presenza che non aggiusta, ma accompagna.

Forse è questo il punto più scomodo e più vero: volersi bene quando è facile è automatico. Volersi bene quando l'altro è triste, lento, fragile, richiede una scelta. E il Natale, se deve avere un senso che vada oltre le luci, potrebbe essere proprio questo spazio di scelta. Non per essere migliori. Ma per essere un po' meno soli, insieme. Volersi bene quando è facile è automatico. Volersi bene quando è scomodo, quando l'altro è triste, stanco, silenzioso, è una scelta. E se non scegliamo di farlo a Natale, quando tutto parla di comunità e cura, quando dovremmo farlo?

Questo testo non è un invito a essere tristi. È un invito a essere veri. A smettere di misurare il nostro valore sulla base di come viviamo una festa. Le feste passano. Le luci si spengono. Le città tornano normali. Noi restiamo. E meritiamo di restare interi, non perfetti.

Se questo Natale è difficile, non c'è niente di sbagliato in te. Se è diverso da come lo immaginavi, non hai fallito. Se hai bisogno di parlare, fallo. Se puoi ascoltare qualcuno, fallo. Forse il regalo più onesto che possiamo farci, quest'anno, è questo: concederci di essere umani, insieme.


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