Bravo lo dici a tua sorella

30.04.2025

di Nicola Accordino

Viviamo nell'epoca d'oro del dilettantismo.
In un mondo dove tutti parlano, pochi ascoltano, e ancora meno studiano, l'unica vera competenza richiesta è l'intraprendenza.
Non sai farlo? Fregatene. Buttati.
Non hai mai studiato? Meglio! Così sei "autentico".
Hai talento? Eh, però sei "freddo".
Hai studiato troppo? Allora sei "accademico", "vecchio", "snob".
Insomma: se sei preparato, parti svantaggiato. 

Il nuovo vangelo dice che se ci credi abbastanza, puoi fare tutto. E nel frattempo ci riempiamo la bocca di frasi tipo:

"Eh ma l'importante è provarci!"
"Almeno lui ci mette il cuore."
"Mica serve saper leggere la musica per emozionare."

Così l'effetto Dunning-Kruger si è infilato nei talent show, nei social, nei podcast e perfino nei saggi scolastici. Il punto non è più sapere fare qualcosa, ma far credere di poterla fare meglio degli altri. Meglio ancora se con una bella storia personale alle spalle, possibilmente struggente, con una colonna sonora malinconica e le luci calde sparate in faccia. Lo dicevano Aldo, Giovanni e Giacomo, in un loro sketch cult: "Il mio falegname, con 30mila lire, la faceva meglio!" Uno sketch diventato profezia.

Perché oggi tutti abbiamo un falegname ideale in tasca, un amico che "ne capisce", un cugino che "ci ha provato".
E ogni volta che qualcuno esprime un giudizio tecnico, parte l'attacco:

"E tu? Sapresti fare di meglio?" Che è come dire: "Non puoi criticare un chirurgo se non sei chirurgo".

Ma la verità è che non serve essere chef stellati per capire che la pasta è scotta.

Eppure eccoci qui, in un mondo dove i bambini che sbagliano al saggio musicale vengono derisi da adulti che non saprebbero nemmeno leggere un do. Dove ci si emoziona per chi suona male, ma ci crede un sacco. Dove chi stona con convinzione viene applaudito come fosse Pavarotti redivivo.

Già La Corrida – "dilettanti allo sbaraglio" – aveva inaugurato un nuovo genere: l'intrattenimento da mediocrità simpatica. Lì si rideva "con" chi si esibiva, ma in realtà… ci si sentiva superiori. E da lì in poi, l'arte è stata normalizzata come qualcosa che "può fare chiunque". Un hobby. Un tentativo. Non un mestiere. Non una vocazione. Non una fatica.

E oggi i talent sono la versione iper-glam di quello stesso spirito: Ti raccontano che puoi cantare male ma vincere lo stesso, se hai la storia giusta. Che puoi fare un accordo alla chitarra – roba che impari in tre pomeriggi – e ricevere una standing ovation, se piangi nel momento giusto.

Nel frattempo, chi ha studiato per anni viene scartato perché "non emoziona".
E allora? Che studi a fare? Io stesso ho capito tutto questo ascoltando musica classica. Non la capivo. Non ne avevo gli strumenti. Eppure mi muoveva qualcosa dentro. Mi faceva sentire un idiota. Un bambino davanti a qualcosa di troppo grande. Ma era proprio in quell'esser piccolo che ho iniziato a crescere.

L'esposizione all'arte, quella vera, non ti fa sentire potente. Ti fa sentire ignorante. Fragile. Affamato. È lì che si spezza l'ego, ed è da lì che si comincia a costruire. Come diceva Battiato: "Preferisco sentirmi un idiota ascoltando un genio, che un genio ascoltando un idiota."

Capito il gioco? Il punto non è "capire tutto subito". Il punto è non accontentarsi dell'applauso facile. È riconoscere la propria ignoranza come motore, non come scusa.

Viviamo in un'epoca in cui il talento non paga. Paga lo storytelling. La narrazione emotiva. Paga "la faccia giusta" e le lacrime a comando. Paga il montaggio drammatico, non l'interpretazione. E allora applaudiamo. Non chi ha talento, ma chi ci assomiglia abbastanza da farci credere che potremmo essere lì al suo posto. Applaudiamo la nostra proiezione, non il suo sacrificio.

La tecnica è diventata sospetta. L'impegno, una noia. Lo studio, roba da nerd. Ma il talento vero non nasce dallo spirito di iniziativa. Nasce da una fame che non si sazia mai, da una disciplina durissima, da una voglia quasi patologica di migliorarsi anche quando nessuno guarda.

E questa roba, no, non si impara nei casting.

Alla fine, tutta questa storia non parla solo di musica, arte o spettacolo. Parla di come vediamo noi stessi. Di quanto facciamo fatica ad ammettere di non essere bravi. Di quanto il mondo ci spinga a "brillare" anche quando dovremmo solo stare zitti e imparare. Parla di quanto sia difficile dire "non lo so". Di quanto sia prezioso restare nell'ombra per diventare luce.

Ecco, forse dovremmo tornare lì. A quando si andava a scuola per ascoltare, non per insegnare al prof. A quando il genio era ammirato, non sminuito.  A quando il silenzio davanti a un'orchestra non era ignoranza, ma rispetto. Perché l'arte, quella vera, non ti fa sentire migliore.

Ti fa sentire vivo. Anche se non la capisci.


Viviamo nell'epoca d'oro del dilettantismo.
In un mondo dove tutti parlano, pochi ascoltano, e ancora meno studiano, l'unica vera competenza richiesta è l'intraprendenza.
Non sai farlo? Fregatene. Buttati.
Non hai mai studiato? Meglio! Così sei "autentico".
Hai talento? Eh, però sei "freddo".
Hai studiato troppo? Allora sei "accademico", "vecchio",...

DISCLAIMER (per nostalgici, revisionisti e venditori di busti su eBay):
Si può compatire l'essere umano, fragile, contraddittorio, destinato alla morte. Ma non si può compatire chi ha vestito i panni di giudice, boia e padreterno. Non si può compatire chi ha ridotto l'Italia a un campo di addestramento per il delirio, chi ha imposto il silenzio col...