Il giorno dell'appeso

28.04.2025

di Nicola Accordino

DISCLAIMER (per nostalgici, revisionisti e venditori di busti su eBay):
Si può compatire l'essere umano, fragile, contraddittorio, destinato alla morte. Ma non si può compatire chi ha vestito i panni di giudice, boia e padreterno. Non si può compatire chi ha ridotto l'Italia a un campo di addestramento per il delirio, chi ha imposto il silenzio col manganello e l'ordine con l'olio di ricino. A un certo punto, la pietà cede il passo alla giustizia. E la giustizia, quando il tribunale è scomparso, si fa corpo, rabbia e memoria collettiva.

Benito Mussolini voleva essere tutto. Capo, guida, incarnazione della Patria, latin lover da calendario e finto proletario in orbace. Aveva creato un teatro dove recitava ogni parte: giornalista, generale, salvatore della stirpe. Eppure, dietro il palco, c'era solo un narcisismo tragico, un vuoto assetato di consenso. Un uomo che ha sublimato la sua solitudine in ambizione, il suo sentirsi inutile in manie di grandezza, come descritto magistralmente da Antonio Scurati. E quando il sipario è calato, è rimasto solo un corpo inerte, appeso a testa in giù, come il suo sogno di grandezza.

Alcuni invocano ancora oggi un "giusto processo" per il Duce. Ma quale processo avrebbe potuto pareggiare vent'anni di soppressione del dissenso, guerre coloniali, torture, leggi razziali, deportazioni, e infine l'alleanza con Hitler? Mussolini aveva fatto del potere uno spettacolo e della morte una procedura amministrativa. Chiedere un processo giusto per un uomo che ha portato l'illegalità a regime è tipico dei fascisti. In democrazia puoi essere fascista; prova a essere democratico sotto un regime. La giustizia non ha bisogno di tribunali che tardano ad agire. La giustizia si fa carne, si fa rabbia, si fa memoria di ciò che non si dimentica.

Il 28 aprile 1945, la storia ha preso una scorciatoia. Non legale, ma simbolica. Perché a volte, la giustizia ha bisogno di urlare, non di verbalizzare. La morte del Duce non fu solo una fine. Fu un'esplosione collettiva di dolore represso, paura, fame, sangue. Una fine che riecheggia un'altra fine, quella dei partigiani appesi a Piazzale Loreto l'anno prima. Non fu giustizia: fu esorcismo. Una liberazione, una rivolta contro il corpo ingombrante di chi aveva imposto il silenzio alla libertà. Ogni passo verso quella piazza è stato un passo verso la memoria di un'Italia oppressa, umiliata, calpestata. E in quell'atto, l'Italia ha ritrovato un frammento di dignità.

Eppure, ancora oggi, si vendono calendari con il suo volto. Ancora oggi si sussurra: "Però i treni arrivavano in orario." Ma questa è una truffa emotiva. È come rimpiangere il boia perché usava corde di qualità. Il regime ha distrutto intere generazioni, ha mutilato la coscienza collettiva, ha trasformato l'obbedienza in virtù. Eppure, l'Italia fatica a ricordare. Preferisce la caricatura al lutto, la barzelletta alla riflessione. Di Hitler, ad esempio, non esiste una tomba. È cenere dispersa, volutamente anonima, dimenticata. Ma Benito Mussolini riposa serenamente a Predappio, tra rievocazioni dal dubbio gusto e gadget osceni, il suo culto come una perenne seduta spiritica per nostalgici. Dovremmo chiederci, mentre qualcuno riaccende la fiamma dell'odio, quale possa essere il futuro di un paese che non sa cosa fare con il suo passato.

Franco è morto nel suo letto, vecchio e ben nutrito. Ma quella è l'eccezione, non la regola. Hitler si spara in testa come un topo in gabbia. Ceausescu viene giustiziato dopo un processo farsa, tremante come un coniglio. Saddam Hussein esce da un buco nel terreno, spettinato, stracciato, umiliato. Gheddafi viene trascinato fuori da un tubo e preso a bastonate. Milosevic muore solo in cella, odiato da tutti, persino dai suoi. Mussolini finisce appeso a testa in giù, sputato, oltraggiato. Una cosa che spesso si dimentica, ma che i moderni emuli del Duce dovrebbero pensare di più: non tutti i dittatori muoiono come Franco, nel comfort della propria casa, ma la maggior parte di loro muore male. Come il Duce.

Ogni volta che un popolo si inginocchia davanti a un uomo solo al comando, si avvicina a un nuovo Piazzale Loreto. Ogni volta che si scambia l'ordine con la libertà, si pianta un seme di dittatura. E ogni volta che si dice "non era tutto male", si dà una mano alla rimozione collettiva. Mussolini è morto male. E non è una tragedia. È un monito. Perché il potere assoluto non ha bisogno di tomba. Ha bisogno di memoria. Scomoda, ruvida, impietosa. Come il cappio che lo ha fermato.


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