Il Giorno del Ricordo tra propaganda e commemorazione

09.02.2019

La storia delle Foibe è una ferita ancora aperta nella memoria collettiva italiana: una tragedia confinata nel regno dell'oblio per i quasi sessant'anni passati tra quel quadriennio 1943-47 che vide realizzarsi l'orrore delle foibe, e l'auspicato 2004, quando il Parlamento approvò la «legge Menia» (dal nome del deputato triestino Roberto Menia, che l'aveva proposta) sulla istituzione del «Giorno del Ricordo». Il perché di un tale silenzio va ricercato in una sorta di tacita complicità, durata decenni, tra le forze politiche centriste e cattoliche da una parte, e quelle di estrema sinistra dall'altra. Fu soltanto dopo il 1989 (con il crollo del muro di Berlino e l'autoestinzione del comunismo sovietico) che nell'impenetrabile diga del silenzio incominciò ad aprirsi qualche crepa. Il 3 novembre 1991, l'allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga si recò in pellegrinaggio alla foiba di Basovizza e, in ginocchio, chiese perdono per un silenzio durato cinquant'anni. Poi arrivò la TV pubblica con la fiction Il cuore nel pozzo interpretata fra gli altri da Beppe Fiorello. Un altro presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, si era recato, in reverente omaggio ai Caduti, davanti al sacrario di Basovizza l'11 febbraio 1993. Così, a poco a poco, la coltre di silenzio che, per troppo tempo, era calata sulla tragedia delle terre orientali italiane, divenne sempre più sottile e finalmente tutti abbiamo potuto conoscere quante sofferenze dovettero subire gli italiani della Venezia Giulia, dell'Istria, di Fiume e della Dalmazia.

La memoria delle vittime delle foibe e degli italiani costretti all'esodo dalle ex province italiane della Venezia Giulia, dell'Istria, di Fiume e della Dalmazia è un tema che ancora divide. Recentemente si è innescata una forte polemica che coinvolge l'ANPI (Associazione Nazionale Partigiani Italiani) circa la partecipazione della stessa al convegno "Foibe e Fascismo" in programma a Parma in questi giorni, durante il quale sarà diffuso il video "La foiba di Basovizza: un falso storico". L'associazione partigiani ha ribattuto che non si tratta di una sponsorizzazione e che il convegno non è negazionista. Nel pomeriggio il "ministro" dell'Interno Matteo Salvini, cogliendo la palla al balzo, è intervenuto nella polemica, sostenendo che occorre rivedere i contributi alle associazioni "che negano le stragi fatte dai comunisti". L'ANPI nazionale dice "le minacce di Salvini non ci spaventano" ma aggiunge che l'iniziativa di Parma non è condivisibile perché è di quelle che "offrono pretesti di polemica a chi è più amico di CasaPound che dell'ANPI". Le Foibe "sono state una tragedia nazionale che copre un amplissimo arco di tempo e va affrontata senza alcuna ambiguità, contestualizzando i fatti" dice la presidente dell'ANPI Carla Nespolo rispondendo al "ministro" Salvini "non certo per timore delle minacce" ma per "chiarezza e obiettività storica". Nespolo ricorda inoltre che il governo non dà all'ANPI contribuiti a fondo perduto ma finanzia progetti di ricerca.

Al di la delle polemiche che sembrano piú pretestuose che reali e tendono a minare la credibilità di certe associazioni da sempre impegnate a mantenere viva la memoria storica del partigianeria italiana non rinnegandone mai orrori e storpiature (polemiche che, tra l´altro, nascono invece vicino a chi quella stessa memoria storica vuole rivisitarla in chiave revisionista), è importante conoscere che cosa furono le Foibe e che cosa comportarono per l´Italia e molti italiani che vivevano in Istria e Dalmazia.

Dopo la caduta del regime fascista durante la seduta del Gran Consiglio del 25 luglio 1943, l'indecoroso armistizio dell'8 settembre e lo sfaldamento dell'esercito italiano, il paese e le provincie precipitarono nel caos. Nei Balcani, e particolarmente in Croazia e Slovenia, le due regioni balcaniche confinanti con l'Italia, il crollo dell'esercito italiano aveva fatalmente coinvolto le due capitali, Zagabria (Croazia) e Lubiana (Slovenia). Qui avevano avuto il sopravvento le forze politiche comuniste guidate da Josip Broz, nome di battaglia "Tito". La prima ondata di violenza esplose proprio dopo la firma dell'armistizio: in Istria e in Dalmazia i partigiani jugoslavi di Tito si vendicarono contro i fascisti che, nell'intervallo tra le due guerre, avevano amministrato questi territori con durezza, imponendo un'italianizzazione forzata e reprimendo e osteggiando le popolazioni slave locali. Dopo la fine della guerra, vista l'impossibilità di seguire i piani di occupazione del Friuli e del Veneto, la rabbia degli uomini di Tito si scatenò allora contro persone inermi in una saga di sangue degna degli orrori rivoluzionari della Russia del periodo 1917-1919. Le uccisioni avvenivano in maniera spaventosamente crudele. I condannati venivano legati l'un l'altro con un lungo fil di ferro stretto ai polsi, e schierati sugli argini delle foibe. Quindi si apriva il fuoco trapassando, a raffiche di mitra, non tutto il gruppo, ma soltanto i primi tre o quattro della catena, i quali, precipitando nell'abisso, morti o gravemente feriti, trascinavano con sé gli altri sventurati, condannati così a sopravvivere per giorni sui fondali delle voragini, sui cadaveri dei loro compagni, tra sofferenze inimmaginabili. Soltanto nella zona triestina, tremila sventurati furono gettati nella foiba di Basovizza e nelle altre foibe del Carso.

Fin dal dicembre 1945 il premier italiano Alcide De Gasperi presentò agli Alleati «una lista di nomi di 2.500 deportati dalle truppe jugoslave nella Venezia Giulia» ed indicò «in almeno 7.500 il numero degli scomparsi». In realtà, il numero degli infoibati e dei massacrati nei lager di Tito fu ben superiore a quello temuto da De Gasperi. Le uccisioni di italiani - nel periodo tra il 1943 e il 1947 - furono almeno 20mila; gli esuli italiani costretti a lasciare le loro case almeno 250mila. La stragrande maggioranza degli esuli emigrò in varie parti del mondo cercando una nuova patria: chi in Sud America, chi in Australia, chi in Canada, chi negli Stati Uniti. Tanti riuscirono a sistemarsi faticosamente in Italia, nonostante gli ostacoli dei ministri del partito comunista che - favorevoli alla Jugoslavia - minimizzarono la portata della diaspora. Alcuni di questi vivono per esempio a Roma, nel quartiere Giuliano - Dalmata, la cui inaugurazione ufficiale e la consegna delle prime unità abitative agli esuli (le camerate dell'ex villaggio operaio ristrutturate e riadattate a piccoli appartamenti), avvenne il 7 novembre 1948.

Come per la piú conosciuta "Giornata della Memoria", anche questi fatti vanno ricordati senza polemica, senza pregiudizi e senza alcun intento giustificatorio nei confronti di chi quegli eccidi li commise. Non debbono divenire pretesto per delle polemiche sterili, atte solo a sminuire il compito di custodi della memoria di associazioni come l´ ANPI. Bisogna anzi utilizzare queste commemorazioni per comprendere non solo le cause di questo eccidio (da ricercarsi non solo nella sete di vendetta di Tito e dei partigiani Jugoslavi in risposta al feroce controllo e alle repressioni nazi-fascista), ma soprattutto devono essere momenti di riflessione per comprendere il mondo che ci circonda, che è anche in parte figlio di quei terribili momenti, di quegli eccidi e di quel sangue. Soprattutto, debbono essere un monito affinché certe atrocità non si ripetano in nome della pace, della civile convivenza e dell´appartenenza al genere umano.