en-Perché Lauro non è Zero (ma dobbiamo ringraziarlo lo stesso)

18/01/2022

Non ci sono buoni propositi o hashtag che tengano: Sanremo è un evento nazionalpopolare talmente radicato nel nostro costume che non si può non parlarne. Come ha anche fatto giustamente notare Fiorello in un suo intervento, davanti al festival della canzone italiana sparisce tutto: niente più Salvini o cinque stelle, niente Sardine o Corona virus, tutto viene fagocitato. Ieri, dopo una interminabile serata/nottata di passione, Diodato è stato decretato vincitore, con il solito codazzo di polemiche legate al sistema di voto che ha visto come sempre contrapposti la giuria popolare e quella di qualità, che ne ha ribaltato la decisione.

Ma c'è un altro vincitore di questa settantesima edizione del festival più amato e odiato dagli italiani: Achille Lauro. Premetto che la sua performance dello scorso anno mi aveva lasciato smarrito e basito. Il genere di musica (se così si può definire) che propone non mi piace e non mi attira (se non per un paio di rari casi), quindi ho storto parecchio il naso quando l'ho visto nella rosa dei partecipanti. Non mi aspettavo, forse come i più, che potesse tirare fuori tutta questa verve e intelligenza nell'uso della opportunità che gli dava stare su quel palco. Perché è indubbio che è riuscito a calamitare l'attenzione dell'opinione pubblica, dando agli esperti musicologi da social argomenti su cui dibattere a non finire. Critiche a cui il giovane ha risposto prontamente non solo con le parole ma anche e soprattutto con le sue esibizioni sempre più sensazionalistiche. Ed è interessante notare come i commenti siano cresciuti come una mare, portandolo infine a raccogliere ovazioni e complimenti anche tra le file di chi non ti aspetti.

Tralasciando l'aspetto tecnico e canoro dell'esibizione (che lascio ben volentieri a chi più capace di me a farlo), vorrei soffermarmi su due aspetti che sono emersi chiari in questa lunga e intensa settimana sanremese.

Achille Lauro non è e non potrà mai essere come Renato Zero. E non lo dico solo come sorcino, ma per una semplice constatazione logica: Lauro non sa cantare (per sua stessa ammissione) e i suoi testi sono qualcosa di completamente al di fuori della musica italiana. In generale come il Trap e l´hip-pop, il Rap è un genere che poco secondo me riesce a funzionare con la lingua italiana. Oltre al fatto che culturalmente non ci appartiene, essendo nato nelle periferie americane. Certo, il testo di "Me ne frego" è una denuncia anche forte del rapporto spesso malato che si crea tra le persone (e quindi la denuncia sociale legata al Rap) ma difficilmente riesce comprensibile e soprattutto a mio parere è consona all'ambiente pop italiano che è fatto di ben altri artisti e ben altre forme. Resta come unico Tres d'union con Zero solo l'aspetto se vogliamo scenico di Lauro. Ma anche questo scema se confrontiamo i due non solo dal punto di vista prettamente anagrafico ma anche e soprattutto dell'impatto.

Renato negli anni ´70 si lanciò contro perbenisti e puritani parlando per primo di argomenti scomodi come la droga, la prostituzione, la pedofilia con testi che restano ancorati nell'immaginario dei suoi fan e scolpiti a fuoco della roccia della musica italiana, mostrando la sua stravaganza, la sua ironia ed il suo estro con una professionalità che si è guadagnata sul campo e un certo garbo. Renato è stato deriso, bullizzato e a volte pagato con un panino con la mortadella prima di essere l'artista che è; ha pagato sulla sua pelle il suo successo e non bastano certo una calzamaglia e due mossette a glorificare qualcuno come artista. Certo, le risposte che ricevette, specie nei primi anni della sua ultra-cinquantenaria carriera, furono sullo stesso tenore di quelle raccolte oggi da Achille Lauro (e forse per questo dobbiamo, come fa notare qualcuno, lasciarli quantomeno il beneficio del dubbio). Ma va ricordato che mentre Renato si cuciva spesso personalmente i suoi vestiti di scena, dietro Achille Lauro si nasconde la manina di una maison come Gucci, che lo ha vestito per le serate sanremesi. oltre il vantaggio non indifferente di godere dei tempi social in cui viviamo. Ed è proprio l´artigianalità che sembra mancare e che ribadisce ancora il concetto: Lauro non potrà mai essere come Zero.

Eppure, lo dobbiamo ringraziare. Achille Lauro non è andato a Sanremo a cantare per poi essere dimenticato dopo due settimane, ma per entrare nella storia. Non per impressionare il pubblico, ma per vendicarsi. È andato nel sancta sanctorum della musica italiana a mostrare il dito medio a chi nella vita ha cercato di farlo sentire sbagliato. È andato a distinguersi, per fare la linguaccia ai sepolcri imbiancati. Per questo si veste, si traveste e si spoglia. Per questo ha citato David Bowie. Semplicemente, se ne frega. E in un festival della canzonetta lui porta un messaggio politico che non è stato afferrato nemmeno dai telespettatori gay: me ne frego. Me ne frego di te che ti senti maschio a modo tuo ma mi prendi le misure per capire quanti centimetri ho nelle mutande, se ho una vagina me ne frego di quel che pensi tu. Me ne frego di essere come volete voi. Sono quel che voglio, tutti devono poter essere quel che vogliono. Perché per un pantalone rosa, tempo fa, un adolescente si è suicidato. Perché di conformismo si muore. Perché un artista può anche risparmiarsi la gloria e il successo se non riesce a parlare di quel che ha visto, di quel che ha subito. Achille Lauro è un uomo generoso, è salito sul palco per tendere la mano a chi subisce molestie da parte di una società ossessionata dalla virilità. Nell'epoca di Salvini, di Putin e di Trump, Achille Lauro si nasconde il pene dietro una tuta e canta una canzone di Mia Martini, non una qualsiasi, quella che racconta e spiega la cattiveria dei maschi. Achille lauro ha dato un senso alla sua partecipazione al festival, perché è questo che fa un artista. Smuove le coscienze.

Ha interpretato quattro personaggi anticonformisti, lì ha portati sul palco più prestigioso d'Italia. Ha mimato una pompa, ha dato un bacio in bocca ad un uomo, ha truccato un altro uomo. Il tutto cantando una canzone dal titolo "me ne frego". Uno schiaffo ai sovranisti macisti d'Italia, rigettandogli addosso il loro stesso motto, urlato a braccio teso e petto in fuori, per dimostrargli come le parole abbiano un peso. Le ha in un certo senso svuotate della loro retorica violenza riempiendole di orgoglio che non è solo Rainbow ma universale. Ed è questa secondo me la vera genialità di un artista che, pur conscio dei propri limiti, trova il suo modo di esprimersi dando al contempo una speranza a chi si sente solo e deriso ed un poderoso e deciso calcio in culo al perbenismo. Il tutto dal salone buono della musica italiana. 

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