24. Il posto nel mondo

08.04.2020

Come per molti di voi forse, era da tanto tempo che non avevo la possibilità di restare a casa cosí a lungo. Oramai siamo arrivati qui a Monaco al giorno 24 di quarantena e dopo le torte, gli sformati, i dolci e la dieta, dopo aver letto due splendidi libri di Camilleri (un autore che consiglio sempre), oggi mi sono ritrovato ad avere poco da fare e con del tempo per pensare. In realtá ultimamente di ragionamenti tra me e me ne ho fatti parecchi. In questi ultimi sei mesi ho vissuto dei momenti tristissimi e il fatto di stare in casa con i miei pensieri non è il massimo. Per fortuna scrivo, leggo, cerco di tenere la mia mente attiva, lontano da facili complottismi e altre piú facili soluzioni stordenti.

Una delle cose a cui penso piú frequentemente in questo periodo è quale sia realmente il mio posto nel mondo. Da emigrante che ha dovuto lasciare due volte la propria terra, prima la Sicilia e poi Roma, talvolta capita di sentirmi troppo diverso, non integrato, alla ricerca di un porto in cui restare. Forse l'ho trovato qui a Monaco il mio porto sicuro, anche se la vita ormai mi ha abituato a piroette e giravolte da far impallidire Roberto Bolle. Questo è il gioco ed è pure bello, se ti lasci andare abbastanza la vita ti porta dove mai avresti pensato e scopri di poter fare cose che prima non avresti neanche lontanamente immaginato di poter fare, ad avere incontri che ti cambiano cosí in profondità da non riuscire piú a riconoscere chi eri prima né ad immaginare come potessi sopportare certe cose senza dire nulla.

Ultimamente però mi trovo a pensare spesso se ho fatto la scelta giusta lasciandomi tutto alle spalle, partendo dalla Sicilia. Ero irrequieto da ragazzo, forse neanche io sapevo bene cosa poter fare della mia vita; adesso mi chiedo se ho trovato quello che cercavo. La risposta ovviamente è no, perché altrimenti non starei cosí male, non mi sentirei cosí incompleto e senza un punto di riferimento stabile. Ora che sono un adulto, anche se sinceramente non mi sento ancora abbastanza cresciuto per potermi definire tale, mi chiedo se non hanno fatto bene i miei fratelli e quei pochi amici d'infanzia a decidere di restare a casa, di non chiedere di piú, di non voler forzare il destino pretendendo di avere qualcosa di piú. Cosa ho avuto davvero "di piú" rispetto a loro? Il gioco ne è valso davvero la candela? Quando torno a casa e vedo la mia famiglia, i miei splendidi nipotini, mi chiedo se tutto quello che ho vale la perdita di momenti indimenticabili con loro. Non fraintendetemi: adesso non potrei piú tornare indietro, confrontarmi con un realtá completamente differente da quella che adesso vivo, ma vale davvero la pena questa consapevolezza a prezzo degli affetti? É davvero cosí importante essere cosi evoluti se il prezzo da pagare è perdere per sempre una parte di te, se vogliamo ingenua e tenera? Forse ero felice e non lo sapevo?

Mi chiedo se la mia non sia stata in realtá una continua fuga, un continuo fuggire dai problemi e dalle responsabilità, dalle scelte e dalle difficoltà. Sarei potuto restare in Sicilia e lottare contro un sistema che ti rende schiavo e precario? Sarei potuto restare a Roma fingendo una felicità che ormai non avevo piú? Sarei potuto restare e lottare per il mio Paese che lentamente scivolava nella nuova barbarie dell'egoismo e della rabbia sociale? Cosa avrei potuto fare di piú per cambiare le cose? Hanno ragione quelli che mi danno del codardo? Sono domande che mi tormentano, che mi spingono a riconsiderare le scelte della mia vita da una nuova prospettiva e mi indeboliscono, mi fanno sentire piccolo, miserabile, egoista. Ma quanto allungo sarei potuto sopravvivere in una realtá che, mi stava stretta? Quanto avrei dovuto sacrificare per restare? Quanto sarebbe rimasto di me? Una parte di me conosce la risposta, ma una soluzione definitiva non arriverà mai, sarà un dubbio che mi tormenterà sempre.

I miei amici mi dicono spesso che dovrei dami pace, accettare quel che sono e chi sono. So che hanno ragione: ormai non posso fare molto per cambiare le cose. Le scelte fatte in passato mi hanno portato ad essere quello che sono e nel posto in cui sto, non posso cambiarle ed è perfettamente inutile restare bloccato ad interrogarsi. Ma non riesco ad ascoltarli, non riesco ad accettare il fallimento dei miei sogni e delle mie aspirazioni. Non riesco ad accettare che sono nulla, semplice spettatore della vita, che non sono influente in nessun caso, che non ho la possibilità di cambiare nulla nella vita. Che non posso dare il mio contributo per cercare di cambiare le storture di questo mondo che sempre piú va alla deriva. E questa irrequietezza non fa altro che farmi sentire ancora di piú fuori posto, sempre estraneo in qualsiasi posto mi trovi. Mi fa sentire scoordinato con la vita che conduco. Se guardo ad alcune delle persone piú importanti intorno a me, sembrano tutti determinati, decisi, sanno cosa vogliono e dove andare apprenderselo. Io non so neanche se riuscirò a resistere al prossimo attacco di panico, figurarsi andare avanti in questa vita che sembra senza senso, che mi sta riempiendo di malinconie, di occasioni sprecate, di tempo perso, di persone a cui volevo bene e che solo perché ho cercato di essere me stesso, ora mi odiano profondamente. E questo schifo di indeterminismo, questo non poter essere importante per nessuno per davvero, questo trascinarsi giorno dopo giorno mi fa male. Perché la vita non ti da una data di scadenza: finirà quando meno te lo aspetti e chissà dove ti troverà.

Viviamo una vita in attesa dell'ineluttabile epilogo e molti si lasciano andare. Alcuni riescono a costruirsi realtá illusorie, a trovare conforto nella religione che li incatena; altri si sprofondano nelle dipendenze che li distrugge; Scappano da una realtá che non sopportano ma che neanche cercano di cambiare. Ma è giusto vivere cosí? È giusto sprecare il proprio tempo in questo modo, trascinandosi da un minuto all'altro come se stessimo solo aspettando il nostro turno? Cosa dobbiamo fare della nostra esistenza? Forse (e dico forse) bisogna smetterla di chiedersi quale sia il proprio ruolo o il proprio scopo nella vita, smetterla di cercare una ragione per quel che ci succede, smetterla anche di dare la colpa agli altri per i propri fallimenti o accettarli come ineluttabile destino. Quello che possiamo cercare di fare è diffondere amore, gioia, serenità. Costruire con quel che si ha, non perdersi nei "se fosse stato", seguire coscienza e giustizia, cercare di essere il piú obiettivi possibile e aiutare le persone ad uscire dal torpore in cui sono scivolate. Ma non come un guru, non come un esperti, ma come una corda a cui far aggrappare gli altri per aiutarli risalire dalle sabbie mobili.

Forse quello che mi (e ci) serve non è un posto ma una utilità. Non posso essere il braccio che tira ma posso essere la corda che unisce.