en-5 strategie per salvare il pianeta (e noi stessi)
Nel blog di mercoledì scorso vi ho raccontato di come gli effetti del riscaldamento globale possano colpirci molto piú direttamente di quanto potessimo pensare. Colture e alimenti che fanno parte della nostra vita quotidiana come caffè e cioccolata rischiano di sparire nel giro di 20 anni se non ci diamo una mossa e cambiamo le cose, a partire dalle nostre abitudini.
Molti di quelli che stanno leggendo, sicuramente si staranno chiedendo: se sono le multinazionali, i grandi produttori, gli allevamenti che producono la maggior parte dei gas serra, cosa possiamo fare noi contro di loro, per spingerli a produrre in modo piú sostenibile, rispettoso dell'ambiente e sicuro? È una domanda che mi pongo da anni, in compagnia di persone molto piú competenti e capaci di me, e la risposta è sotto gli occhi di tutti: dobbiamo cambiare le nostre abitudini. Dobbiamo metterci in testa che non è il mercato (o non solo) a fare il consumatore ma il consumatore a fare il mercato. I cambiamenti climatici vanno combattuti a livello globale indubbiamente, ma sicuramente anche i nostri comportamenti personali vanno monitorati e passati sotto la lente del buonsenso. Senza voler diventare estremista come un Vegano (cui va comunque il merito di aver introdotto una sensibilità maggiore in campo di scelte alimentari ed aver sollevato il legittimo sospetto che sia possibile un sistema piú sostenibile), voglio mostrarvi come sia possibile apportare piccoli ma significativi cambiamenti allo stile di vita attuale.
- Vedere il quadro d'insieme. Sicuramente il primo e piú significativo passo è prendere coscienza del proprio impatto sull'ecosistema. Un modo efficace e che io personalmente utilizzo è chiedersi cosa ne sarebbe del mondo se tutti si comportassero come me. Un modo per afferrare il quadro d'insieme è rispondere al questionario per calcolare la propria impronta ecologica, un indicatore complesso utilizzato per valutare il consumo umano di risorse naturali rispetto alla capacità della Terra di rigenerarle. Nello specifico quanti ettari di terra e di mare servono per rigenerare le risorse consumate? Oppure lo si può misurare da un punto di vista energetico, considerando quanta CO2 si immette e quindi quanta foresta è necessaria per riassorbirla. Al momento, per mantenere i nostri consumi annui, ci servirebbero più di un pianeta e mezzo. Un po' tantino. E questo indicatore è solo parziale, perché si basa principalmente sulle emissioni di CO2, senza tener conto di altri rifiuti come ad esempio quelli radioattivi. Diventare piú consapevoli di quanto il nostro stile di vita impatta sull'intero ecosistema è il primo passo verso il cambiamento.
- Il mare di plastica. Nell'Oceano Pacifico, tra la California e le Hawaii, bottiglie di plastica, giocattoli per bambini, scarti di oggetti di elettronica, reti da pesca abbandonate e milioni di detriti galleggiano nell'acqua. Questa massa di detriti, di almeno 80 mila tonnellate, occupa un'area che è diventa grande quanto tre volte la Francia. Quello su cui spesso non ci fermiamo a ragionare abbastanza è che la plastica tradizionale, il 99% della quale di origine fossile, necessita di tempi di "smaltimento" che vanno dai 100 ai 1.000 anni. Secondo le attuali stime, nel 2050 nei nostri mari ci sarà più plastica che pesci! Lisa Svensson, tra le coordinatrici del Programma delle Nazioni Unite per l'ambiente (Unep), ha inserito l'emergenza plastica tra le cosiddette "crisi planetarie". É di vitale importanza quindi ridurre l'uso della plastica e incrementarne il riciclo. La prossima volta che ordiniamo un Margarita, chiediamoci se abbiamo veramente bisogno di bere come fanciulli di tre anni dal cartone del succo di frutta. Stessa cosa per il cibo: meglio comprare in quantità maggiori, ed evitare le monoporzioni optando invece per prepararsi i cibi a casa e portarli in ufficio usando contenitori riutilizzati. I prodotti monouso in plastica sono derivati dal petrolio attraverso procedimenti che richiedono un enorme dispendio di acqua. Una volta utilizzati, poi, non essendo biodegradabili, restano nei mari a ricoprire i fondali e rappresentano la principale causa di inquinamento marino. Il bagno poi è uno dei luoghi dove passiamo più tempo, ma in cui produciamo una grande quantità di rifiuti di plastica dannosi per l'ambiente. Anche qui, operare delle scelte intelligenti e sostenibili può renderci protagonisti diretti del cambiamento per la riduzione del consumo di plastica. Basta guardarsi in giro: i rasoi monouso possono essere sostituiti da quelli ricaricabili risparmiando sull'uso di imballaggio inutili; il sapone si può comprare allo stato naturale e senza che sia avvolto da mille strati di plastica e cartone; le bottiglie dello shampoo lavate e riciclate negli appositi bidoni. Basta veramente poco.
- Il paradosso in bottiglia. L'Italia è il primo paese in Europa e il secondo al mondo per consumo di acqua in bottiglia, con una media di 206 litri l'anno a persona. Si tratta di un grande business per le aziende imbottigliatrici: un giro d'affari stimato in 10 miliardi di euro l'anno che si alimenta di canoni concessionari irrisori, pari a circa 1 millesimo di euro al litro, 250 volte meno del prezzo che i cittadini pagano per una bottiglia. L'Italia è ricca di acqua ma presenta diverse criticità nel sistema di approvvigionamento, nella gestione e nel controllo, che alimentano la sfiducia dei cittadini nei confronti dell'acqua di rubinetto, diffusa in circa un terzo delle famiglie. Fra i problemi più frequenti c'è l'inadeguatezza della rete idrica e l'elevata dispersione, che arriva a una media del 40,6% contro quella europea del 23%. Ci sono alcune situazioni di contaminazione dell'acqua potabile, connesse con l'inquinamento delle falde utilizzate per l'approvvigionamento o con problemi lungo la distribuzione, che non migliorano di certo la percezione dei cittadini sul tema. "Si tratta però di situazioni puntuali per lo più note e segnalate dalle autorità competenti, che non devono essere generalizzate su tutto il territorio nazionale - aggiunge Andrea Minutolo, coordinatore scientifico di Legambiente. - I controlli sull'acqua che arriva nelle nostre case sono molto accurati e frequenti (a Roma ad esempio vengono eseguiti circa 250mila controlli all'anno). Rinunciare al pet e tornare ad usare le bottiglie di vetro potrebbe essere comunque un buon inizio. Nella vita quotidiana, anche comprare una borraccia al posto delle infinite bottiglie da 0,50 L farebbe una grande differenza.
- Fazzoletti e salviette di carta. Tutti abbiamo in casa fazzoletti di carta, Rotoloni, carta igienica, tovagliette asciugamani. Sappiate che importanti aree della Grande Foresta del Nord, in Svezia, Finlandia e Russia, vengono distrutte per ricavare polpa di cellulosa usata per produrre fazzoletti, carta igienica, asciuga tutto e tovaglioli da Essity, il principale produttore di questi articoli in Europa, secondo nel settore a livello mondiale. Lo sostiene "Wiping out the boreal", rapporto lanciato da Greenpeace International. "È sconvolgente pensare che alberi che hanno svettato per decenni, o addirittura per secoli, vengano abbattuti per produrre fazzoletti o asciuga tutto che verranno utilizzati per qualche secondo e poi gettati via - dichiara Martina Borghi, responsabile della campagna Foreste di Greenpeace Italia -. Non possiamo permettere che foreste ad Alto Valore di Conservazione, incluse le foreste vergini, vengano rase al suolo per produrre prodotti monouso". Pensateci la prossima volta che in un bagno pubblico, dopo esservi lavati le mani, prenderete piú di tre strappi di carta per asciugarvi. O quando sbadatamente verserete del liquido e correrete a srotolare metri di asciuga tutto per non andare a prendere lo straccio di panno. Pensate alle vaste torbiere e al permafrost che caratterizzano la Grande Foresta del Nord e che ne fanno il più grande deposito di carbonio tra gli ecosistemi terrestri del nostro Pianeta, rendendo questa foresta indispensabile nella lotta contro i cambiamenti climatici. E ricordate che solo il 3 percento della sua estensione è protetto.
- Lo compro oggi, lo getto domani. Continuiamo a comprare sempre nuovi abiti e accessori alimentando l'industria della moda, che a livello di emissioni inquinanti è seconda solo al petrolio. Ciò che indossiamo è una delle principali fonti d'inquinamento degli oceani, dato che la maggior parte dei vestiti sono realizzati con fibre sintetiche della plastica. Oggi siamo vittime della cosiddetta "FAST FASHION", dove i capi d'abbigliamento sono studiati per avere una breve durata e per essere di conseguenza cambiati spesso. Come ormai sappiamo, gli oceani si sono trasformati in isole di plastica che finiscono per uccidere tutto l'ecosistema! I frammenti delle fibre sintetiche risultano troppo piccoli per essere filtrati e trattenuti in modo efficace dai depuratori o dai filtri delle nostre lavatrici. Senza tralasciare l'inquinamento chimico prodotto dalle fabbriche di produzione dei capi e quello indotto dai pesticidi nei campi di cotone. Sicuramente è fondamentale fare scelte responsabili anche quando acquistiamo un abito. Prima di comprare cose superflue, dovremmo chiederci se davvero abbiamo la necessità di acquistare nuovi abiti o se possiamo farne a meno, così da poter risparmiare e ridurre la domanda di questi prodotti. Un altro passo è scegliere i brand che producono abbigliamento etico, che rispettano l'ambiente e i lavoratori senza sfruttarli. Si dovrebbe inoltre recuperare l'arte del riuso, del recupero, che non vuol dire come sostengono molti, andare in giro con abiti strappati e sdruciti ma scatenare l'inventiva per dare ad un capo, spesso ancora perfettamente intatto eccezion fatta che per un bottone cadente, nuova vita e nuovi utilizzi. Il che si tramuta in un risparmio monetario ed ecologico, oltre che qualcosa di estremamente stimolante per creatività e inventiva.