Mi sveglio
sempre presto, molto prima che la città si accorga di me.
La luce qui entra a fatica, come i sogni di chi non è nato in questo posto.
Siamo in dieci in questa casa che profuma di umido e di sudore, di attese spezzate
e di speranze cucite insieme a forza.
Le pareti
tremano sotto i colpi del tempo, e ogni respiro è un piccolo atto di
resistenza. Ci dividiamo stanze, letti, sguardi. C'è chi ha lasciato una
famiglia dall'altra parte del mondo, chi ha un lavoro che sembra una punizione
e chi invece non ha niente, solo il vuoto negli occhi.
Riusciamo a
ridere qualche volta, anche se i vicini ci guardano storto perché le nostre
parlate hanno tonalità troppo alte. C'è una signora un pó anziana che ci guarda
storto ogni volta, come se fossimo appestati. Ma noi non facciamo altro che
parlare in quella casa troppo piccola per cosí tante persone.
Io faccio il
lavoro che nessuno vuole, quello umile, invisibile.
Pulisco, lavo, porto scatoloni, rifaccio letti, stiro camicie che non sono mai
le mie. Mi pagano poco. Meno di quanto merito.
Ma io lavoro. Perché devo. Perché sono venuto quí per questo. E quando il mio
padrone mi dice di fare una cosa la faccio perché so che non ci penserebbe due
volte a mandarmi via. la misera paga mi è necessaria se non voglio perdere
tutto.
Cammino per
strada e sento le parole come colpi di sassi: "Vai via, straniero!" "Ladri,
parassiti!" "Portate via la nostra dignità!".
Mi chiedo
perché. In fondo io faccio i lavori che loro non vogliono fare, ma non posso
spiegarglielo perché non parlo bene la loro lingua. Nessuno si è mai chiesto se
volessi impararla, nessuno mi ha mai dato la possibilità di farlo.
Parlano di
dignità… ho lasciato la mia a casa, insieme ai miei figli che vedo in una
videochiamata ogni tanto. Ho lasciato la mia vita, il mio sangue e la mia
storia. Eppure, qui, sono un mostro. Un intruso.
Arriva la
sera, quando torno a quella casa, e tutto quello che ho diventa una fatica
infinita da condividere con nove estranei che respirano la stesso aria pesante.
Ridiamo per non piangere, ma sotto sotto siamo tutti stanchi.
Tutti soli.
Poi arriva il
giorno del bonifico. Quel momento in cui la fatica diventa un ponte. Il ponte
che collega due mondi divisi da mille chilometri e mille pregiudizi.
Entro in
banca, stringendo tra le mani il frutto di un mese di lavoro. i pochi risparmi
che sono riuscito a strappare al padrone di casa e mangiando avanzi. entro in
punta di piedi, per non disturbare. Ma li vedo. Mi guardano come se portassi un
segreto sporco. Mi chiedono nome e indirizzo. Glieli do.
Una pausa.
Gli occhi
della signora si fermano sulla mia pelle, poi sul mio nome. Non nasconde una
smorfia di disappunto. Se fosse stata fuori, per strada, mi avrebbe evitato,
come fanno tutti.
Mi dice che
devo pagare una tassa, che il recente governo ha istituito, sulle transazioni
estere. "non dipende da me" dice con un sorriso falso di soddisfazione.
Gli do i soldi
e guardando le mie mani, cambia espressione, come se scoprisse qualcosa che non
si aspettava. Io guardo oltre le sue spalle, fuori dalla finestra e penso a mia
moglie, ai miei figli. Ai loro sogni, alle loro lacrime, alle loro risate
lontane.
"Questi
soldi," dico, "sono per loro. Per l'università, per il futuro, per non lasciare
che la povertà sia la loro unica eredità."
Alza gli occhi
dallo schermo, sentendo qualcosa che fa tremare il suo giudizio.
Però tace, non
dice niente, ma io sento il peso di ogni parola non detta. È assurdo come io
debba giustificarmi per come spendo i soldi da me dolorosamente guadagnati. lei
mi guarda, con lo sguardo di chi pensa che io sia un ladro, mentre io sto solo
cercando di tenere insieme i pezzi della mia vita e della mia famiglia.
Esco dalla
banca con la ricevuta in mano. Piove.
Penso a mia
moglie, ai miei figli da soli nella nostra cascina vicino Firenze. Quella casa
costruita con tanti sforzi e che io non vedo da due anni.
"Ninetta,
tornerò prima o poi"
E la pioggia
lava via solo la polvere, non la fatica di chi lotta ogni giorno per esistere.
Entro in un locale per prendere qualcosa di caldo. Dalla televisione sento una
donna, rappresentante del governo, dire che siamo dei ladri perché portiamo i
loro soldi fuori dal paese.
Io non ne
capisco di politica ma percepisco l'odio. Perché? Cosa facciamo di male? È cosí
sbagliato sostenere le persone a noi care? Loro non farebbero lo stesso?